lunedì 28 marzo 2011
La tragedia
Caro professore,
In questi giorni abbiamo assistito a due grandi tragedie in Giappone: una a causa di un evento naturale, il terremoto, e una nella centrale nucleare di Fukushima. Quest’ultima è ancora più drammatica della prima, causata dello stesso terremoto ma ingigantita dalle creazioni dell’uomo. Nel mondo classico le tragedie erano causate solo da eventi naturali, dal fato e dal destino, ma l’uomo non era in grado di distruggere tutto, ora le tragedie (eventi naturali+azione dell’uomo) sono ancora più pericolose, perché grazie ai prodotti umani la natura e la vita stessa sono ancora più in pericolo. Forse per la tragedia e la sofferenza oggi non basta più chiedere conto a Dio. Il mondo continua a essere tragico come dicevano gli antichi.
Alessandro
Caro Alessandro,
Gli eventi drammatici del Giappone fanno certamente pensare anche all’azione dell’uomo a cui fai riferimento. Vorrei fare alcune distinzioni sulla parola “tragedia” da te usata, per mettere un po’ in luce il senso differente attribuito agli eventi tragici nella cultura greca e in quella cristiana. Usiamo la parola tragedia ormai senza percepire più il significato profondo originario, quello che caratterizzava la forma drammatica per eccellenza dei greci.
Conosciamo la tragedia come sciagura individuale o collettiva, mentre la tragedia come forma drammatica non è universale. La tragedia è di origine greca. I disastri naturali, la violenza, la morte, la rappresentazione della sofferenza e la vita eroica sono riprodotti da molte culture, ma la tragedia è greca e non può essere avvicinata neppure alla tradizione ebraico-cristiana. Neppure il libro di Giobbe può essere considerato tragico, né le tribolazioni del protagonista possono essere considerate tragedia. Perché Giobbe viene ricompensato per le sue sofferenze e, come dice giustamente Georges Steiner ne La morte della tragedia: “dove c'è ricompensa, c'è giustizia, non tragedia”. Dio è giusto, anche nell'ira. A volte sembra che la giustizia di Dio sia lenta, eccessivamente lenta, ma alla fine anche il percorso di vita più tortuoso è sorretto dalla razionalità e dalla giustizia di Dio. Anche dove l’oscurità delle vicende non consente di cogliere la trama della vita il cristiano è comunque certo che una ragione sorregge tutto. Il greco, no. La tragedia ha origine dalla riflessione sull’indifferenza della natura, sulla necessità cieca delle forze che operano nel mondo. E tragedia significa accettazione della catastrofe. Il protagonista della tragedia finisce male, perché è soggiogato da forze che la razionalità non può spiegare né potrà mai vincere. L’irrazionalità è l’elemento fondamentale. Se la disgrazia, la rovina, lo sfacelo si potessero prevedere o risolvere con mezzi tecnici o sociali, con il miglioramento della condotta individuale, con il pentimento delle persone, ci sarebbe un dramma, ma non una tragedia. L’evento tragico è qualcosa che non si può risolvere né con le leggi sociali, né con la psichiatria, né migliorando i rapporti economici. La tragedia è irreparabile, non c’è ricompensa per le sofferenze passate. Giobbe invece, alla fine riacquista il doppio delle asine, perché Dio è giusto, ma Edipo non riacquista la vista, né il trono di Tebe.
La tragedia insegna che il dominio della ragione per quanto riguarda la giustizia è circoscritto, e che non c'è progresso scientifico, risorsa tecnica che possano aumentarne il suo raggio d'azione. All'esterno dell'uomo e dentro l'uomo sta l'alterità del mondo, dice Steiner. E l’alterità del mondo è irriducibile alla volontà sia del singolo sia del gruppo.
Il destino cieco, la furia bruta ci tendono l'agguato e ci distruggono. La condanna è sempre sproporzionata alla colpa (ammesso che vi sia una colpa). Ma è inutile chiedere spiegazioni razionali. Le cose stanno così, inesorabili e assurde. E la punizione è sempre più grave di ogni possibile colpa. Questa è un'intuizione importante, terribile e spietata della vita. Un eccesso di sofferenza, ed è grazie ad un eccesso di sofferenza che l'uomo acquista il diritto alla dignità. Debole, avvilito, mendicante, cieco cacciato dalla città, acquista una nuova grandezza, viene nobilitato. Come se fosse passato attraverso il fuoco. C'è una sofferenza, un lamento sulla caduta dell'uomo, ma poi c'è una gioia per la resurrezione del suo spirito. Un effetto misterioso su Edipo, Re Lear, Fedra. Una vita con personaggi che finiscono miseramente a causa di un cambiamento improvviso della fortuna. Quindi la tragedia ha un moto costantemente discendente.
Ma attenzione: ciò che andiamo a vedere al teatro, oppure al cinema è innanzitutto una forma di svago, dove anche le scene di terrore non sono la tragedia: si cerca di rabbrividire per un attimo e di sognare, però rimanendo distanti, senza preoccupazione. Giustamente, ricorda Steiner, riferendosi agli uomini dei secoli scorsi: “quando [l’uomo] dalla strada entrava al teatro non lasciava una realtà per incontrarne una più vera, ma cercava magari la distensione, l'illusione”. Quest’esperienza accadde soprattutto nel Romanticismo. Un uomo vuole rabbrividire per un attimo, togliersi dalle preoccupazioni quotidiane. Ma la tragedia non è neanche la cronaca, non è solo una catastrofe come quella del Giappone o una minaccia che giunge inaspettata. Perché non ci sono rimedi materiali contemporanei che possano evitarla. Il destino non si può modificare. La tragedia vuole che sappiamo che l'esistenza di per sé è una provocazione, un paradosso e che ci sono forze inspiegabili e distruttive che stanno all'esterno e all'interno di noi, forze potenti, incontrollabili e vicinissime. “Chiedere perché Edipo sia stato scelto per soffrire è come chiedere giustificazione alla notte: non c'è risposta”, dice Steiner. Se vi fosse una risposta vorrebbe dire che non ci stiamo occupando di una tragedia, ma di sofferenze giuste o ingiuste, che potrebbero essere evitate, come quando ci si occupa dei racconti educativi. Noi oggi, in buona parte siano ancora romantici, perché cerchiamo di evadere dalla tragedia, attraverso il teatro o il cinema. Perché la conclusione deve essere sempre felice, può accennare ad una possibile felicità, a dispetto della realtà. I crudeli, gli assassini si reprimono o vengono puniti, il delitto non paga; invece la tragedia sta lì a ricordare che anche il progresso umano è un'illusione. Nella tragedia l’ingiustizia individuale nega un preteso ordine generale. Basta una persona sola a denunciare l’irrazionalità del mondo e che non c'è giustizia e non c'è ordine. Nella tragedia si guarda il vuoto e c'è il rischio della vertigine. Non c’è alcun senso alla sofferenza, non c’è alcuna redenzione. La tragedia non tratta di sofferenze terrene risolvibili con misure razionali, bensì della tendenza inalterabile del mondo verso l'inumano, l'irrazionale e verso la distruzione.
Il cristianesimo non è tragico, esprime una concezione anti-tragica del mondo. Perché prospetta all'uomo la certezza di un riscatto, di un riposo finale in Dio. Guida l'anima verso la giustizia e verso la resurrezione. La passione di Cristo è dolore estremo, ma svela anche l'amore di Dio per l'uomo, perché attraverso la morte e la resurrezione l'uomo viene riscattato dal male. Nel cristianesimo la tragedia è dunque solo parziale, episodica, perché il cristianesimo è essenzialmente ottimistico. La disperazione viene superata. Mentre dalla tragedia non c’è riscatto. Perché nel cristianesimo la disperazione è considerata un peccato? Perché chi dispera è perché non crede nella possibilità di essere salvato. Per questo la disperazione è un peccato mortale. Ma la tragedia esiste laddove la realtà non è stata imbrigliata dalla ragione e dalla coscienza. Non c’è alcun progetto sull’uomo e sul mondo, alcuna razionalità negli eventi della storia, alcun riscatto dal dolore. Questo è tragedia. L’uomo greco ha saputo guardare in faccia il dolore e lo ha rappresentato sulla scena. Come parte della vita, non come mezzo di redenzione.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 21 marzo 2011
Indifferenza nei confronti della vita
Caro professore,
Sono in apnea nel mare più profondo della vita e sto aspettando qualcosa. Vivo con disinteresse e amo con disinteresse, lasciando che le situazioni della mia vita scivolino sulla mia pelle senza entrare dentro. Un peso mi sta tenendo sott'acqua e non riesco a risalire. Cosa mi sta succedendo? Solitudine? Mancanza di qualcosa? Incertezza?
Laura
Cara Laura,
Indifferenza e disinteresse potrebbero essere considerati comportamenti molto simili, ma credo che l'indifferenza sia una forma di disinteresse più profonda, e più grave. Qualche anno fa, nel 2007, un importante psicologo italiano, Adriano Zamperini, ha realizzato uno studio molto significativo sui tratti caratteristici e sui significati reconditi dell'indifferenza. La psicologia ci ha insegnato che l’indifferenza di cui si parla spesso nel mondo contemporaneo è come un distacco emotivo tra sé e gli altri, è una mancanza di interesse nei confronti della società, è il desiderio di non essere coinvolti dagli altri e dal mondo; chi è indifferente non desidera partecipare, confrontarsi, essere trascinato verso qualche idea o qualche obiettivo. L’indifferente riduce le energie rivolte verso il mondo esterno, verso le disgrazie altrui e il suo sguardo fa finta di non vedere. È distaccato nei confronti della sorte degli altri, apatico verso ciò che accade intorno. È ripiegato su se stesso e si preoccupa solo di ciò che accade a sé. Non si lascia attraversare dai drammi degli altri uomini e dai loro problemi; è distratto, noncurante. Vive una sorta di "anestesia emotiva". Adriano Zamperini (L’indifferenza, Einaudi 2007) afferma che l’indifferenza si situa nella sfera dell'essere e non dell'avere: egli ricorda che non si dice infatti che una persona ha l'indifferenza, ma che è indifferente. L'autore dice che non è una malattia, ma è un “copione relazionale” ossia un modello di comportamento che regola il vissuto. La persona indifferente è gregaria, alienata, burocrate, omologata, seriale, eterodeterminata, dice l'autore. Agisce come se fosse in mezzo alla ressa, prende le distanze, si mette sulla difensiva come se si dovesse proteggere dal mondo. Se ci pensi, è grazie all’indifferenza di molte persone che altre possono agire e ottenere i propri scopi.
L’indifferenza è in questo caso il culto dell'io: per non avere problemi ognuno si fa i fatti propri: con freddezza, con azioni calcolate. L’indifferenza nasce e cresce dall'egoismo o da un narcisismo eccessivo, da una convenienza calcolata. Dice il filosofo tedesco Gunther Anders: “A suo tempo Primo Levi capì bene che questa forma di ipocrisia rassicurante era una bomba innescata. Egli parlò dei cosiddetti grigi, cioè della fascia maggioritaria, e intermedia, degli indifferenti e degli opportunisti, come del vero e unico problema morale del nostro tempo”. (L’uomo è antiquato)
In ogni caso l’indifferenza può produrre sicurezza: perché è una capacità di adattamento ai diversi contesti di vita. Certo, talvolta l'indifferenza è il prezzo da pagare per chi non vede alcuna possibilità di cambiamento e quindi diventa apatia. È l'indifferenza degli sconfitti. L’indifferenza però è una modalità relazionale negativa. È sinonimo di un problema. A volte, nei rapporti tra i popoli l'indifferenza viene chiamata neutralità.
Dice Zamperini che l’indifferenza coglie il respiro della contemporaneità, perché altro non sarebbe che un modo di trattenere il respiro per meglio adattarsi alla realtà sociale, assumendo passivamente il modo di sentire che una certa istituzione o un certo contesto propongono o impongono.
A pensarci bene la cosa più triste è che, effettivamente, non solo c’è il male dell'indifferenza, ma spesso vengono prodotte delle norme che generano indifferenza, in modo che nessuno si debba occupare di altre cose o degli altri. Ognuno deve stare al proprio posto, non deve pensare a ciò che fuoriesce dalla propria mansione lavorativa. Così viene premiato chi ha imparato a contenere le proprie passioni senza farle diventare collettive, perché disturbano l'organizzazione. (Vedi le belle riflessioni su questo tema che propone Gunther Anders ne L’uomo è antiquato). Quando ad un soggetto viene richiesta una prestazione, tale prestazione nell'economia aziendale è valutata con il criterio dell’utile, quindi spesso non si è richiesti come persone, perché in quanto persone si è elementi imprevedibili e quindi elementi di possibile disturbo; per questo alle persone viene spesso chiesto di identificarsi in un ruolo. Viene richiesta solo la competenza specifica, per evitare che emozioni differenti o contrarie si possano insinuare nell'interazione stereotipata, nell'andamento comune e possano boicottare e creare difficoltà all'organizzazione che non vuole essere messa in discussione.
C’è dunque una indifferenza individuale che suscita in noi orrore, quando ad es. pensiamo ai carnefici nei campi di sterminio (“L'orrore che proviamo per quegli impiegati nei campi di sterminio che solevano lavorare con la massima indifferenza fino a sera, per dedicarsi poi anima e corpo, alla fine della loro giornata lavorativa, a emozioni che non avevano nulla a che fare con il loro lavoro”. (L’uomo è antiquato) e c’è una indifferenza generata da un sistema che non vuol essere smascherato. Zamperini fa notare che nelle nostre società la spudoratezza con cui ad esempio viene indagata la vita privata viene esaltata come conquista di libertà, mentre viene sostenuta e premiata l’indifferenza verso il sistema politico e verso l’economia, i due motori della società che non vogliono essere disturbati e che invece costruiscono grandi resistenze nel momento in cui qualcuno cerca di indagare le trame dei loro percorsi.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 14 marzo 2011
Il mistero di Dio continua a "turbarmi"
Caro professore,
Ho un dubbio che mi porto dentro da molto tempo: io mi interrogo sull'esistenza di Dio. A lungo andare mi sono reso conto che non posso darmi delle risposte, e cerco di dimenticare questi dubbi, ma rimangono sempre dentro di me. Se ho la certezza che una risposta logica non c'è, perché il mistero continua a "turbarmi"?
Alberto
Caro Alberto
In passato i tentativi di “dimostrare l’esistenza di Dio” erano sentiti come esigenze imprescindibili. Il monaco benedettino Anselmo d’Aosta, priore dell’abbazia benedettina di Bec in Normandia (oggi Le Bec-Hellouin – cfr. http://www.abbayedubec.com/), nell’XI secolo si sforzava di trovare una prova unica (unum argumentum) che nessuno potesse confutare in grado di mostrare inequivocabilmente l’esistenza di Dio attraverso una prova razionale. Era stato sollecitato dai suoi confratelli che gli avevano chiesto di produrre delle argomentazioni sull’esistenza di Dio da poter utilizzare nella predicazione quotidiana per persuadere i fedeli. Anselmo ne diede conto in un bellissimo libro intitolato Proslogion (Dialogo), in tre brevi capitoli (capp. 2-4). Diceva sostanzialmente questo: chi vuole negare l’esistenza di Dio si contraddice. Per negare qualcosa occorre averne un concetto (Se voglio affermare che un grifone non esiste, devo avere un concetto di grifone; se voglio affermare che un quadrato non esiste, devo sapere che cosa è un quadrato). E il concetto di Dio qual è? Dio è: “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” (id quo maius cogitari nequit). Ma se esistesse solo nell’intelletto (Dio come concetto della mente umana) e non nella realtà, quello che viene pensato sarebbe inferiore a ciò che esiste insieme nel pensiero e nella realtà. Se esistesse solo nel pensiero, non sarebbe affatto “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”. Quindi Dio deve esistere anche nella realtà (Pensiero+realtà = nulla di maggiore). Pertanto, affermare che Dio non esiste significa cadere in contraddizione, perché ciò che si tenta di negare – proprio per le proprietà del concetto – esisterebbe nella realtà. (Supponiamo che Botticelli avesse in mente esattamente la raffigurazione della Primavera. Prima aveva un’immagine mentale, poi la raffigurazione ha preso forma ed è diventata reale. L’immagine reale è superiore alla sola immagine mentale, è qualcosa in più. Per questo se si intende Dio come “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” l’immagine mentale – il concetto di Dio – non è ancora “veramente” Dio, perché solo ciò che è contemporaneamente nell’intelletto e nella realtà è più grande di ciò che è solo nell’intelletto). Al tempo sembrava dura contraddire questa prova razionale, anche se Anselmo, nel suo libretto, riporta correttamente anche la contestazione che gli venne fatta da un altro monaco, Gaunilone. Comunque, questa prova, che poi verrà chiamata prova ontologica dell’esistenza di Dio (Ontologica = si parte da un concetto per dimostrare che Dio esiste realmente), sarà utilizzata da molti filosofi e matematici di primo piano, e solo nel ‘700 Immanuel Kant mostrò che non era corretta. (Se ti vuoi divertire con questi ragionamenti poi vedere i seguenti libri: Giovanni Piazza, Il nome di Dio. Una storia della prova ontologica, ESD-Edizioni Studio Domenicano 2000; Emanuela M. Scrivano, L' esistenza di Dio. Storia della prova ontologica. Da Descartes a Kant, Laterza 1994; oppure puoi leggere il piccolo – ma comprensibile - libretto del filosofo Friedrich Hegel, Lezioni sulle prove dell'esistenza di Dio, Morcelliana 2009). Nei secoli successivi anche Tommaso d’Aquino nel XIII secolo aveva adottato qualche prova razionale per mostrare l’esistenza di Dio. Ma, più prudentemente, aveva denominato queste argomentazioni con il termine “vie” (“cinque vie”) e non “dimostrazioni”. Oggi non sentiamo più l’esigenza di dimostrare razionalmente e in modo inconfutabile l’esistenza di Dio. Ma è possibile che – come dici tu – il mistero di Dio continui a turbarci. Perché è l’esistenza stessa a essere un mistero, e il mistero, anche quando la ragione non riesce ad afferrare concettualmente l’esistenza o meno di Dio, ci ricorda che, se anche il linguaggio logico non riesce a portare sufficienti “prove” dell’esistenza di Dio, gli elementi della universo e la natura specifica dell’uomo sono sufficienti a “turbare” ogni uomo. La filosofa spagnola Maria Zambrano (1904-1991) nell’opera Verso un sapere dell’anima [1991], Cortina Raffaello 1996, scrive: “Per l'uomo i fenomeni naturali si possono ridurre a formule matematiche, ma da queste formule trascende qualcosa di innominabile, di irriducibile che lascia l'uomo meravigliato di fronte al mistero della sua presenza, di fronte alla sua impressionante bellezza”. Quello che ci (e ti) turba è il mistero della vita in generale ed è questo mistero che di solito chiamiamo Dio.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 7 marzo 2011
La seduzione
Caro professore,
Ho dato uno sguardo al libro che mi ha prestato, "Il libro delle seduzioni" di Malek Chebel, e mi sono chiesta come mai in questo testo si parli della seduzione e dell'erotismo nei paesi arabi.
La seduzione nell'immaginario comune è intesa come una serie di "tecniche", giochi di sguardi, profumi, in cui l'occhio gioca il ruolo più importante poiché la vista è il primo senso che entra a contatto con la persona di sesso opposto: perchè Malek Chebel si concentra sulla donna araba? Nel mondo islamico la donna è costretta a coprirsi e ad essere totalmente sottoposta alla volontà maschile. Sono forse queste censure ad aumentare il desiderio sessuale? Mi viene da pensare a questo punto che la seduzione vera e propria dipenda da una serie di circostanze che portano l'uomo ad accelerare l'istinto sessuale. Probabilmente la civiltà occidentale talvolta esula da quella che è la seduzione descritta nel libro, poiché è un mondo in cui la donna è totalmente emancipata quindi il rapporto sessuale non è più un tabù per nessuno, oltre al fatto che in occidente si possono trovare uomini succubi delle proprie compagne. La seduzione secondo me non assume il suo significato vero e proprio.
E' vero quindi che più si proibisce più il desiderio aumenta? Cosa ne pensa lei?
Grazie
Morgana
Cara Morgana,
Malek Chebel (1953) è un antropologo e uno psicoanalista algerino, ed è per questo che si occupa particolarmente della seduzione nel mondo magrebino. Ma le sue riflessioni sono molto acute e, oltre a mostrarci quante forme assuma la seduzione in un mondo diverso da quello occidentale (del suk, del caffè, dell'hammám - il bagno turco -, del gineceo), possono consentire una riflessione sulla seduzione in generale:
Ho deciso, facendo riferimento al libro che stai leggendo, “Il libro delle seduzioni” (Bollati Boringhieri 2001), di compilare un piccolo decalogo:
1. “Non si seduce se non in quanto si è già sedotti. Da ciò una dipendenza... per anticipazione”. Prima di mettere in atto le armi o le tecniche di seduzione (sguardi, silenzi, sorrisi, gentilezze, complimenti) una persona ha in qualche modo già subìto l’attrazione dell’altra. La seduzione, pertanto, è la risposta ad una seduzione precedente, improvvisa, inaspettata, involontaria, che suscita il bisogno di avvicinare colui o colei che ci ha già sedotto, di cui subiamo il fascino, di cui avvertiamo immediatamente dipendenza e dunque un desiderio di entrare in relazione. La seduzione intenzionale è una reazione ad un precedente richiamo più o meno inconsapevole. Per questo Chebel scrive: “non è dove mi aspetterei di trovarla che la incontro”.
2. “La seduzione è un gioco”. “La seduzione propone la propria parte d'infanzia”. Nella seduzione infatti si è liberi dalla chiusura in un certo ruolo o in una professione. Nella seduzione si possono manifestare tratti infantili che di solito non mostriamo a tutti. E questi tratti infantili rendono il gioco piacevole e fanno cadere le difese tra le persone che, gradualmente, si avvicinano. Ci fidiamo di chi mostra la parte infantile, buffa, talvolta ingenua della propria personalità. In fondo la seduzione è un’esposizione all’altro. E l’esposizione può essere rischiosa, si è vulnerabili e un rifiuto fa male. Chi fa cadere le maschere del ruolo che ricopre nella società e manifesta la propria parte infantile suscita fiducia.
3. “La seduzione libera dal possesso”. Sì, perché in questo gioco di avvicinamento entrambe le parti non possiedono l’altro e non sono dominate dall’altro. Pertanto possono esplorare le caratteristiche della persona senza ferire o essere ferite, perché consapevoli che è in atto un gioco.
4. “Sedurre è offrirsi” E’ vero che sedurre significa condurre a sé, ma la seduzione è anche (o prima) un offrirsi all’altro. Per questo uomini e donne escogitano molti modi per offrire la parte migliore di sé (pensa al trucco) e Chebel spiega bene questo concetto riferendosi al valore del profumo. Egli scrive: “Il profumo, nel Maghreb, costituisce un'arma essenziale della seduzione, a metà strada tra l'offerta e l'esercizio di potere. Offerta, il profumo lo è nel doppio senso del termine: io ti offro un profumo, e in questo profumo mi offro a te.”
5. “Fin dalla loro origine mitica, seduzione e silenzio sono parenti.” La seduzione è un’intimità a due in cui il silenzio avvicina. Tra due persone si instaura una comunicazione silenziosa, fatta di sguardi, di attese che comunicano intimità, vicinanza, condivisione.
6. Chebel scrive che “la seduzione sembra restituire alla donna la parola”. Intendo questa frase fuori dal significato sociale attribuito dall’autore. Ma il fatto che il seduttore riempia di attenzioni una persona, in qualche modo la libera dal silenzio in cui è costretta a reprimere i propri pensieri, e pertanto le consente di esprimere autenticamente se stessa, perché, sentendosi al centro dell’interesse, ha la certezza di essere accolta e ascoltata da chi le offre le proprie attenzioni e il proprio tempo.
7. “Il processo della seduzione si nutre di tempo, o, per essere più esatti, di durata.” Il tempo dell’attesa è infatti la testimonianza che c’è un interesse autentico e rassicura la donna sul fatto che l’amore possa poi durare.
8. “La conquista è un processo costante”. Mi riferisco all’amore a non al possesso. Il don Giovanni seduce per conquistare, per possedere momentaneamente, ma quando ha ottenuto il proprio risultato non è veramente interessato alla donna che ha sedotto (si tratta di una seduzione effimera). Nel rapporto d’amore la seduzione è invece un processo continuo, perché è ciò che unisce fuori dall’ordinario (un intreccio di sentimenti).
9. Trovo bellissima questa intuizione di Chebel che non ha bisogno di commento: “La seduzione è dunque l'afferramento totale e intuitivo di un compagno che, in quel momento, viene riconosciuto come il miglior complemento possibile di sé.”
10. E per concludere (come sai, bisogna arrivare fino a 10), mi piace riportare un’idea dell’autore che trovo davvero molto bella e “vera” (la condivido completamente). L’autore scrive che “la seduzione è un’esplosione immaginativa con cui l'uomo o la donna cerca di conservare quanto ritiene gli sia dovuto”. “Esplosione immaginativa”, perché se si smette di immaginare l’altro, si smette semplicemente di amarlo.
Un caro saluto,
alberto
P.S. Vedi anche il libro di Roland Barthes (1915-1980) Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi 20005, e il libro di Umberto Galimberti Il corpo, Feltrinelli 2002.
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