Caro professore,
Il Milan stava disputando una partita amichevole di
calcio, quando alcuni tifosi avversari iniziarono ad insultare con cori
razzisti alcuni giocatori di colore. La reazione fu l’immediato abbandono del
campo di gioco e la sospensione della partita. Ma perché di fronte ad insulti
di sfondo razziale ci si trova a reagire in un certo modo, mentre di fronte ad
insulti che ormai siamo abituati a sentire siamo impassibili? Perché un insulto
razziale è peggio di un qualsiasi altro insulto (sono pur sempre tutti
insulti!)? E la reazione di Boateng (il principale insultato) è corretta o no?
Perché, secondo me, se si fosse trovato di fronte ad un altro tipo di offesa si
sarebbe comportato in tutt’altro modo. Io gioco a calcio e anche a me è
capitato di essere insultato da fuori, ma non ci ho fatto caso. Se però mi
capitasse di essere insultato da cori razzisti non penso che abbandonerei il
campo. É quindi giusto nascondersi di fronte agli insulti razzisti (il Milan in
un certo senso ha fatto così ritirandosi negli spogliatoi) o bisognerebbe
invece rimanere e lottare contro questi insulti?Michele 2G
Caro Michele,
Anche se un calciatore ha ben
presente che certe azioni sono finalizzate a disorientare e a innervosire, gli
insulti razzisti generano sofferenza, perché lambiscono una parte profonda del
vissuto di una persona che deve ancora lottare per conquistare il proprio
riconoscimento nella società in cui opera. Un insulto - determinato dal colore
della pelle - non ha lo stesso significato se rivolto ad un bianco o ad un
nero. Per una serie di ragioni storiche e psicologiche. Basterebbe leggere il
bellissimo libro di Gabriele Turi, “Schiavi in un mondo libero” [Laterza
2012], per comprendere il difficile e sofferto processo di emancipazione dei
neri. Anche solo considerando il periodo dall’età moderna a oggi (il periodo in
cui si lotta per i diritti), ci si rende conto che le legislazioni dei vari
paesi, sebbene abbiano progressivamente acquisito i diritti dei bianchi, hanno
omesso di riconoscere gli stessi diritti fondamentali ai neri. Sappiamo che gli
schiavi non potevano diventare cittadini, perché considerati “proprietà di
altri” e sappiamo che il razzismo ha giustificato nella storia un sistema
disuguale di relazioni economiche e sociali; che ha stabilito la “proprietà
dell’uomo-merce”; che ha giustificato forme di dominio dell’uomo sull’uomo, ha
legalizzato l’istituzione schiavistica, ha legittimato il traffico di esseri
umani, lo sfruttamento, la discriminazione, la xenofobia, l’intolleranza e la
violazione dei diritti fondamentali. I neri sono stati considerati inferiori
dai bianchi, tanto che, come sappiamo - e come scrive l’autore -: «Il
razzismo spiega come in molte culture «negro» sia divenuto sinonimo di schiavo»
(p. 110). C’è dunque stata un’asimmetria profonda tra bianchi e neri, nella
mancata ammissione della condizione paritaria dei secondi. E non dobbiamo
dimenticare che ad un certo punto vi è anche stato un razzismo che ha preteso
di essere «scientifico» e che anche in Italia nel 1938 sono state emanate delle
leggi «razziali» che hanno generato sofferenze insanabili. La storia pesa come
un macigno. Perché continuare a subire profonde discriminazioni e non essere
riconosciuti come persone con lo stesso status di tutti? Anche allo stadio. La
filosofa americana Martha Nussbaum ricorda che «Tutti andiamo avanti per la
nostra strada spesso avvolti nella nebbia dei nostri obiettivi e desideri
egoistici, [...] vedendo le altre persone come meri strumenti per la
realizzazione di quei desideri». Allora anche un calciatore può decidere di
non essere un semplice “strumento” per il divertimento di chi lo delegittima
considerandolo come schiavo o essere inferiore. E non c’è stipendio che tenga:
per quanto alto, nessun compenso sana il bisogno di riconoscimento e di dignità
di un uomo, perché, come scrive Charles Taylor: «Un riconoscimento adeguato
non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano
vitale».Un caro saluto,
Alberto