Platone diceva che filosofare è
imparare a morire. Già, ma chi riesce a immaginare la propria fine? Il pensiero
della propria morte è un timore che gli uomini cercano di rimuovere rapidamente
o di rimandare, perché in fondo non sono mai pronti a congedarsi
definitivamente dagli affetti più cari. Elie Wiesel, a 82 anni e a seguito di
un’improvvisa operazione «a cuore aperto» avvenuta negli Stati Uniti nel
2011, si trova improvvisamente sospeso tra la vita e la morte. Come un naufrago
in bilico sul proprio destino, egli analizza rapidamente la propria vita e si
chiede se abbia compiuto accuratamente il proprio dovere di sopravvissuto; se
abbia saputo usare le parole giuste per raccontare il «tempo delle tenebre»:
Birkenau, Auschwitz, Buchenwald; un insieme di esperienze che – egli ribadisce
– vanno «oltre la comprensione». Nel tentativo di consegnare
alle generazioni successive la memoria delle vittime, Wiesel ha scritto davvero
molte opere (circa 50), e in tutti i suoi libri ha lottato contro le
banalizzazioni televisive e cinematografiche e contro la spettacolarizzazione
della tragedia, nel tentativo di restituire la complessità delle vicende
storiche e dell’animo umano. Prima di entrare in sala operatoria, nella sua
mente scorrono le esperienze imprescindibili della propria formazione (le
pagine della Bibbia e le parole dei profeti, il Talmud e il Chassidismo, il
misticismo e l’etica) e i contenuti delle sue opere principali. Egli ricorda il
padre, la madre e la sorellina («figurano in tutti i miei racconti, in tutti
i miei sogni. E in tutto ciò che insegno») e riferisce che la sua attività
principale è stata la «lotta contro l’odio», attraverso la testimonianza
della pace (Wiesel ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1986).
Nonostante l’esperienza dei campi di concentramento e di sterminio, Wiesel
confessa di essere rimasto fedele alla tradizione ebraica e di non aver perso
la fede. Pur appartenendo ad una generazione che si è sentita spesso
abbandonata da Dio e tradita dall’umanità, egli crede profondamente sia in Dio
sia nell’uomo. Consapevole pertanto che i minuti che precedono l’operazione al
cuore potrebbero essere gli istanti conclusivi della propria vita, egli si
chiede che cosa dirà a Dio («Che dirò a Dio, lassù?» [...] «troverò
l’audacia di rimproveraGli il Suo incomprensibile silenzio mentre Satana
riportava le sue vittorie?»), e si ripete quello che aveva già risposto a
un giornalista che gli aveva posto la medesima domanda. Pronuncerà una sola
parola: «perché?». Convinto che la memoria dell’Olocausto sopravviverà
al tempo, egli coltiva pertanto la speranza che la storia «sulla
disperazione» si possa trasformare in una storia «contro la
disperazione» dell’uomo, e si congeda con queste bellissime parole di
fiducia nell’umanità intera: «credo nell’uomo malgrado gli uomini. Credo nel
linguaggio benché sia stato ferito, deformato, pervertito dai nemici
dell’umanità. E continuo ad aggrapparmi alle parole perché spetta a noi trasformarle
in strumenti di comprensione anziché di disprezzo. A noi scegliere se vogliamo
servirci di esse per maledire o guarire, per ferire o consolare» (p. 96).
Un caro saluto,
Alberto Lusso
Elie Wiesel, A cuore aperto, Milano, Bompiani, 2013, pp. 103, euro 11,00.
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