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lunedì 18 febbraio 2013

A cuore aperto

A cuore aperto - Clicca l'immagine per chiudere



Platone diceva che filosofare è imparare a morire. Già, ma chi riesce a immaginare la propria fine? Il pensiero della propria morte è un timore che gli uomini cercano di rimuovere rapidamente o di rimandare, perché in fondo non sono mai pronti a congedarsi definitivamente dagli affetti più cari. Elie Wiesel, a 82 anni e a seguito di un’improvvisa operazione «a cuore aperto» avvenuta negli Stati Uniti nel 2011, si trova improvvisamente sospeso tra la vita e la morte. Come un naufrago in bilico sul proprio destino, egli analizza rapidamente la propria vita e si chiede se abbia compiuto accuratamente il proprio dovere di sopravvissuto; se abbia saputo usare le parole giuste per raccontare il «tempo delle tenebre»: Birkenau, Auschwitz, Buchenwald; un insieme di esperienze che – egli ribadisce vanno «oltre la comprensione». Nel tentativo di consegnare alle generazioni successive la memoria delle vittime, Wiesel ha scritto davvero molte opere (circa 50), e in tutti i suoi libri ha lottato contro le banalizzazioni televisive e cinematografiche e contro la spettacolarizzazione della tragedia, nel tentativo di restituire la complessità delle vicende storiche e dell’animo umano. Prima di entrare in sala operatoria, nella sua mente scorrono le esperienze imprescindibili della propria formazione (le pagine della Bibbia e le parole dei profeti, il Talmud e il Chassidismo, il misticismo e l’etica) e i contenuti delle sue opere principali. Egli ricorda il padre, la madre e la sorellina («figurano in tutti i miei racconti, in tutti i miei sogni. E in tutto ciò che insegno») e riferisce che la sua attività principale è stata la «lotta contro l’odio», attraverso la testimonianza della pace (Wiesel ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1986). Nonostante l’esperienza dei campi di concentramento e di sterminio, Wiesel confessa di essere rimasto fedele alla tradizione ebraica e di non aver perso la fede. Pur appartenendo ad una generazione che si è sentita spesso abbandonata da Dio e tradita dall’umanità, egli crede profondamente sia in Dio sia nell’uomo. Consapevole pertanto che i minuti che precedono l’operazione al cuore potrebbero essere gli istanti conclusivi della propria vita, egli si chiede che cosa dirà a Dio («Che dirò a Dio, lassù?» [...] «troverò l’audacia di rimproveraGli il Suo incomprensibile silenzio mentre Satana riportava le sue vittorie?»), e si ripete quello che aveva già risposto a un giornalista che gli aveva posto la medesima domanda. Pronuncerà una sola parola: «perché?». Convinto che la memoria dell’Olocausto sopravviverà al tempo, egli coltiva pertanto la speranza che la storia «sulla disperazione» si possa trasformare in una storia «contro la disperazione» dell’uomo, e si congeda con queste bellissime parole di fiducia nell’umanità intera: «credo nell’uomo malgrado gli uomini. Credo nel linguaggio benché sia stato ferito, deformato, pervertito dai nemici dell’umanità. E continuo ad aggrapparmi alle parole perché spetta a noi trasformarle in strumenti di comprensione anziché di disprezzo. A noi scegliere se vogliamo servirci di esse per maledire o guarire, per ferire o consolare» (p. 96).
Un caro saluto,
Alberto Lusso

Elie Wiesel, A cuore aperto, Milano, Bompiani, 2013, pp. 103, euro 11,00.


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