Caro professore,
è da poco trascorsa la «Giornata della Memoria», in cui si
celebra il ricordo delle vittime dello sterminio nazista che ha causato la
scomparsa di 11 milioni di persone, 6 milioni delle quali di origine ebraica. Come
«Giorno della Memoria» è stato scelto il 27 gennaio, in quanto il 27 gennaio
del 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau, una vera e propria «industria della morte», dove i
nazisti eliminarono oltre 1 milione e 100 mila esseri umani. E proprio da
questo inferno è riuscito a salvarsi Sami Modiano, un uomo di origine ebraica
che a soli tredici anni entrò in quel maledetto mattatoio. Recentemente l'ho
visto ospite di un programma serale, e devo dire che mi ha molto colpito la sua
testimonianza e soprattutto una frase, pronunciata poco prima della fine della
trasmissione: «6 milioni di ebrei e 5 milioni di altre persone innocenti,
sono stati eliminati da chi? Da persone di grande cultura, si perché i tedeschi
erano persone di grande cultura e hanno creato questo inferno che si chiama
Birkenau-Auschwitz, hanno ammazzato 11 milioni di persone innocenti, dunque
bisogna avere paura anche di persone di grande cultura». Ma come si può
arrivare ad avere paura della cultura? Com’è possibile che la cultura si
trasformi in uno strumento di oppressione dell'uomo, quando invece dovrebbe
rappresentare un’occasione di liberazione dalla fragile e breve natura umana? Riccardo, III E
Caro Riccardo,
Seguo la tua distinzione tra «aver paura della cultura» e «aver paura anche delle persone di cultura». Se per cultura si intende il patrimonio di esperienze materiali, sociali, spirituali e artistiche di un popolo, i timori sono infondati. La conoscenza delle altre civiltà diventa fonte di ricchezza, perché apre alla varietà e alla complessità delle espressioni umane, e libera le persone dai pericoli che correrebbero se credessero nell’univocità delle manifestazioni della vita e dei principi morali. Montaigne e Pascal ci hanno insegnato che certi principi che si credono universali sono invece frutto di convenzione, di abitudine, di interesse o di forza. Se per cultura intendiamo invece alcune dottrine fanatiche o settarie, in questo senso è legittimo temere la diffusione di certi contenuti: sappiamo infatti che esistono “culture belliche”, che tendono ad imporre il dominio di uno stato su un altro; “culture razziste”, che hanno difeso lo sfruttamento degli uomini o hanno progettato di rifondare l’umanità; “culture di violenza”, che tendono a risolvere i conflitti con la prevaricazione. Potremmo considerare queste ultime come pseudo-culture o semplicemente come ideologie che si inseriscono nel quadro più grande della “cultura” di un popolo. Vanno certamente osteggiate sul piano intellettuale, allora l’istruzione e la formazione diventano indispensabili o – come dici tu – «un’occasione di liberazione»: in questo senso, più si ha conoscenza (cultura) più si possono trovare nella civiltà degli anticorpi per emarginare convinzioni errate o squilibrate. C’è però un altro aspetto da considerare: Sami Modiano ha evidenziato che molte “persone di cultura” hanno generato sofferenze inaudite. Certo, ormai sappiamo che la maggior parte degli intellettuali delle SS aveva frequentato l’università. Scrive Christian Ingrao in “Credere, distruggere” [Einaudi 2012]: «Colpisce la presenza ricorrente di un certo numero di grandi università nel curriculum dei futuri intellettuali ss, in particolare di Lipsia, Monaco, Gottinga e Heidelberg. Quasi l'8o per cento dei futuri intellettuali ss le frequentano nel corso dei loro studi» (p. 23). Questo basta per giustificare la paura degli uomini di cultura? Bernard Bruneteau, nel volume Il secolo dei genocidi [Il Mulino 2006], analizza altri genocidi del secolo scorso: in Armenia (1915), in Ucraina (Holodomor, 1932-33), in Cambogia (1975-79), in Ruanda (1994) e in Bosnia (1992-95). Come vedi dobbiamo “temere” l’uomo di cultura come l’uomo senza cultura, perché certe pulsioni di morte appartengono all’uomo in generale.
Un caro saluto,
Alberto
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