Caro professore,
In questi giorni a scuola abbiamo parlato della Shoah e
abbiamo riflettuto su un documento che mostra alcune parti del processo a Adolf
Eichmann che si è svolto a Gerusalemme. Abbiamo letto un brano di Hannah Arendt
in cui la filosofa tedesca usa l’espressione «banalità del male» per indicare
che anche le persone che non sono spietate possono commettere azioni molto
violente. Secondo lei Adolf Eichmann era solo un burocrate che eseguiva degli
ordini o era una persona che condivideva fino in fondo gli ideali nazisti?Alessandro
Caro Alessandro,
«Banalità del male» è l’espressione che Hannah
Arendt ha utilizzato per descrivere Adolf Eichmann, uno degli ufficiali nazisti
responsabili dell’Olocausto, per indicare che anche persone apparentemente “normali”
possono compiere azioni efferate, per l’incapacità di pensare e di avere una
propria coscienza. L’idea di Arendt è questa: non occorre essere intimamente
malvagi per compiere il male. Questa tesi è presente in alcuni suoi lavori: dal
libro più conosciuto – o semplicemente più citato – “La banalità del male”
[Feltrinelli 1964] a “La vita della mente” [Il Mulino 1987].
L’espressione «banalità del male» ha fatto discutere. Anche se è
sostenuta da molte buone ragioni, e per certi aspetti sembra connotare
esattamente la figura di Eichmann, molti studiosi hanno messo in luce che
dietro le sembianze del burocrate che espletava il proprio lavoro si celava
invece un uomo che condivideva perfettamente gli ideali del nazismo e l’odio
per gli ebrei. Certo, lo sguardo quasi impacciato di Eichmann che appare nel
processo a Gerusalemme del 1961 è ben diverso da quello di Hermann Göring, che
ostenta disprezzo e sicurezza nel processo di Norimberga. Ma il temperamento
non deve trarre in inganno. Già David Cesarani nella biografia di Eichmann di (Adolf
Eichmann. Anatomia di un criminale [Mondadori 2004]) scrive che Arendt ha
adattato «il personaggio alla sua teoria del totalitarismo» (p. 7),
ridimensionando le componenti dell’ideologia e dell’odio ben radicate
nell’ufficiale tedesco. Antonio Cassese, il professore di diritto
internazionale recentemente scomparso, ha nuovamente messo in luce alcuni fatti
che mostrano che Eichmann non fosse un semplice burocrate. Nel libro “L’esperienza
del male [Il Mulino 2011]” (pp. 135-138), egli ribadisce che Eichmann era
un uomo malvagio che «con passione trucidava e uccideva quanti più ebrei
possibile». E racconta due episodi (per la verità, contenuti anche nel
libro di David Cesarani). Il primo fa riferimento a un telegramma che
l’ambasciatore ungherese aveva inviato a Hitler nel 1944. Infatti, verso la
fine della guerra, il reggente d’Ungheria Miklós Horthy si era messo d’accordo
con Hitler per risparmiare circa 40 mila ebrei. Poiché gli Alleati si stavano
avvicinando, egli aveva cercato di salvare la faccia e di mitigare la propria
posizione filonazista. Poiché Hitler aveva bisogno dell’appoggio politico e
militare degli ungheresi, aveva dato il proprio assenso. Eichmann invece «si
indignò e protestò» e «fece di tutto per vanificare gli ordini di Hitler»,
e mise in atto una serie di procedure per spedire quelle persone nei campi di
concentramento, anche se avrebbero dovuto salvarsi. Un secondo fatto si
riferisce ad un’intervista che Eichmann rilasciò in Argentina nel 1956 al
giornalista olandese filonazista Willem Sassen. In questo documento registrato,
che doveva essere reso pubblico dopo la morte di Eichmann, l’ufficiale nazista
ammette di «aver sbagliato», per non avere «ammazzato abbastanza
ebrei». Antonio Cassese parla dunque di un uomo con una «tensione
immorale» fortissima. Hannah Arendt non era a conoscenza di questi fatti,
ed è per questo che si è concentrata soprattutto sull’immagine del burocrate.
Sicuramente, come hanno mostrato gli esperimenti di Stanley Milgram e di Philip
Zimbardo, il contesto può far degenerare certe inclinazioni, ma Adolf Eichmann
celava dietro ad un garbo apparente un odio profondo per l’umanità. Un caro saluto,
Alberto
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