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Cor-rispondenze

lunedì 25 marzo 2013

Galassie


 
Caro professore,
Sono stata “fulminata” diverse volte, in questi ultimi tempi. Ho ricevuto tantissimi scossoni, che mi hanno fatto dubitare di molte persone. Ho dubitato anche di me stessa, di come mi comporto, di che senso abbia la mia permanenza su questo pianeta. Poi ho avuto una specie di illuminazione... non ha chiarito tutti i miei dubbi, ma mi ha fatto riflettere, mi ha dato sicurezza. Ho visto la foto di una galassia con al centro un buco nero (come tutte le galassie, penso). Quest’immagine, bellissima, mi fa svegliare ogni mattina contenta di essere viva. Non so perché, ma è così. Mi può capitare di tutto, ma so che quella galassia è là, e io so che la posso guardare a scapito di tutto quello che mi succede. Forse il senso della nostra vita è questo: poter ammirare tutto ciò che c’è di bello. Questo però inizia a non bastarmi più. E allora ogni volta che esco la sera guardo le stelle: non mi sento piccola, no di certo, ma mi sento felice. Felice di esserci, qui ed ora, e felice di quello che verrà. A questo punto vorrei non dover più dormire la notte, vorrei non sprecare tempo e vivere. Solo che mi è impossibile, ovviamente. Passo il pomeriggio a studiare, e la mattina a scuola. Ci vado volentieri, non mi si fraintenda, ma vorrei sapere che senso ha uno studio finalizzato ad un’interrogazione per cui magari avrò un bel voto, ma che non va ad intaccare nessuna delle stelle che amo tanto guardare. Per questo voglio fare il medico: voglio far sì che altri continuino a vivere per poter ammirare un angolo dell’universo. Quindi per proseguire questo mio obiettivo dovrò studiare. Sta bene. Ma non diventassi ciò che voglio? Che senso avrebbe la mia vita, svuotata del suo fine? Ho trovato in parte spunti interessanti in Blaise Pascal, ma non mi è sufficiente. C’è qualcuno che risponda a questi quesiti senza far appello alla religione?
Sofia, 4B
 

Cara Sofia,
Ogni uomo è stato folgorato dal cielo. Nella storia della filosofia c’è solo l’imbarazzo della scelta: Platone nel “Teeteto” racconta che Talete cadde addirittura in un pozzo, perché contemplava le stelle; sappiamo che Galileo ha quasi perso la vista e i suoi occhi si sono consumati nello sforzo di scrutare i corpi celesti; Pascal era così emozionato da affermare: «il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa» e Kant nella “Critica della ragion pratica” ha affermato che il cielo stellato e la legge morale che portava dentro di sé riempivano il suo animo di meraviglia. Xavier de Maistre, in una pagina dell’“Éspedition nocturne”, si è definito «spettatore effimero di uno spettacolo eterno» e ha curiosamente scritto che se fosse stato il re di un paese avrebbe fatto «suonare a stormo le campane» e avrebbe obbligato i suoi «sudditi di ogni età, sesso e condizione a mettersi alla finestra e a guardare le stelle». Come vedi, nella filosofia, e altrettanto nella letteratura, c’è sempre stata profonda correlazione tra spazio interiore e cielo stellato. È la correlazione che hai provato tu: un rapporto che talvolta intimorisce, perché rivela contemporaneamente insufficienza e grandezza; ci consente di comprendere la nostra marginalità di fronte all’infinito e la nostra nobiltà, in quanto siamo gli unici esseri viventi che – come direbbe Pascal – possono intendere ciò che accade. Il cielo dà forza: non solo quello metaforico che può aprire alla dimensione religiosa, ma anche quello fisico così misterioso e imperscrutabile, che i greci chiamavano “cosmo”, proprio perché ordine e bellezza insieme. Il macrocosmo è infatti bellezza che deriva dall’ordine. Esiliata su questa terra o smarrita nell’immensità dello spazio, nessuna esistenza viene privata del proprio scopo, perché il fine consiste in un continuo fornire senso a ciò che si fa guidati dalla propria sorgente interiore. Rimanere fedeli alla stella polare della motivazione intrinseca produce la forza sufficiente per superare gli ostacoli. Occorre dare senso ai vari istanti di quel microcosmo che è la nostra esistenza per generare quell’ordine che produce la bellezza della vita, grazie al quale nessun uomo viene mai privato del proprio fine.
Un caro saluto,
Alberto

mercoledì 20 marzo 2013

Mai smettere di credere



Caro professore,
Ci sono situazioni nella vita non sempre piacevoli che ti portano ad abbandonare tutto, le tue idee, i tuoi obiettivi, i tuoi sogni, senza più credere in quello che avevi creduto fino a quel momento. Ritengo che se si ha un obiettivo, un sogno, non bisogna mai smettere di crederci e andare fino in fondo, anche se qualche volta gli esiti saranno negativi. Credo che occorra affrontare i propri obiettivi con coraggio, sensibilità e forza. Molte persone sono convinte che non si può credere in un sogno o in un obiettivo che secondo loro non si potrà mai raggiungere, e lasciano volare via ogni aspettativa. Ma allora che cos’è più giusto: credere sempre fino in fondo o lasciar perdere e voltare pagina?
Giulia, 4B

Cara Giulia,
C’è una bella locuzione in italiano: «coltivare un sogno». E coltivare è un verbo che proviene dal mondo agricolo. Deriva da còlere, che anticamente voleva dire spingere l’aratro o anche spingere innanzi. Vuol dire sia lavorare un terreno sia esercitare le facoltà della mente e del cuore in modo fruttuoso. È un gesto che implica un’attività regolare e persistente. Si coltiva l’arte, si coltivano la musica, la pittura, le passioni. Per coltivare occorre allora spingere innanzi, lavorare, voler condurre a compimento la propria opera, guidarla alla propria destinazione. Certi esiti negativi non devono abbattere – anche il terreno talvolta è ostile al contadino –, ma, come dici tu, ci vogliono «coraggio, sensibilità e forza». Il «coraggio» del proprio progetto, la «sensibilità» nel riadattarlo e la «forza» per perseguirlo. E il coraggio non è la temerarietà  che, come diceva Aristotele è un eccesso, e quindi da evitare, ma è piuttosto una forza che consente di superare anche momenti incoerenti, ricompense inadeguate, piccole disfatte, mancati apprezzamenti. Ci espone su un terreno che non è già tracciato, quindi agli occhi dei più è incerto e malfermo. Ma è lì che inizia la bellezza della vita. Se un calciatore sapesse quante volte si farà male, un genitore o una coppia conoscessero in anticipo tutte le sofferenze a cui vanno incontro nella vita di relazione, forse non inizierebbero neppure. Ci vuole un po’ di "audacia" per costruire ogni progetto. Conosco persone che hanno la licenza di terza media e hanno letto più opere di storia di molti laureati. Il più grande storico del Roero è un ex-impiegato di banca che ha imparato da solo il gotico e il latino e pubblica opere che altri studieranno per le loro ricerche. Ha affinato un terreno che nessun laureato ha neppure tentato di dissodare. Un libro bellissimo sulla flora di Cuneo è stato scritto da un ferroviere e non da un botanico di professione. Contiene un’immensa sapienza. Credo che tutte queste persone conoscano il giusto significato del verbo coltivare. Ossia: lavorare, dissodare, rendere fertile, cioè dedicarsi e alimentare il proprio sogno. Poiché si tratta di sogno e non di miraggio, occorre attività e non passività. C’è chi coltiva sogni di pace tra arabi e israeliani, e si impegna in progetti; chi coltiva il sogno della politica onesta e si impegna in un movimento o in un partito. Questo è il senso di coltivare. Tuttavia, il contadino sa che dalla semina non è detto che ottenga i migliori ortaggi del mondo. Però accetta il frutto del proprio lavoro. Così, se i sogni fanno i conti con la realtà, diventano progetti. Senza seguire prospettive illusorie e seducenti (a 40 anni non posso diventare un calciatore professionista) e senza essere impulsivi (se non ottengo subito l’obiettivo, lascio tutto), ognuno può beneficiare del prodotto del proprio lavoro, qualunque grado di perfezione raggiunga. Ricorderai che Martin Luther King il 28 agosto del 1963, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, ha tenuto il discorso "I have a dream" ("Ho un sogno") davanti al Lincoln Memorial di Washington. Nel corso della propria vita avrà avuto mille motivi per lasciar perdere o, come dici tu, per «voltare pagina». Ma ci ha insegnato che con la perseveranza si può voltare il foglio della storia dei diritti anche in un’altra direzione. In avanti.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 11 marzo 2013

Buona educazione e verità




Caro professore,
C’è un fatto, avvenuto qualche giorno fa, che può sembrare banale, ma mi ha scosso. Forse è eccessivo che io ci rifletta così a lungo, essendo per mia natura portata a pensare a quello che faccio o che mi capita più di quanto sarebbe necessario fare, ma non importa, per questa volta lascerò che la mia testa vaghi. Era venerdì sera. Io e i miei amici avevamo appuntamento per mangiare cena insieme e avevamo deciso di andare a vedere lo spettacolo teatrale della nostra insegnante di teatro F.. Lei ce l’aveva chiesto e noi avevamo accettato contenti. Lo spettacolo cominciava alle 21.15 e siamo arrivati in tempo, ma ci siamo dovuti mettere in ultima fila, perché i posti davanti erano già occupati. F. ha iniziato il suo spettacolo di canti in portoghese. Io e i miei amici non ce l’aspettavamo, avremmo preferito uno spettacolo teatrale. Presto ho iniziato ad annoiarmi e, rispondendo ad un impulso improvviso, ho tirato fuori il cellulare dalla giacca e ho iniziato a messaggiare, ma senza farmi vedere. Finito lo spettacolo, che tra l’altro era durato un’ora e mezza, ci viene incontro F. con un sorriso: «Vi è piaciuto, ragazzi?». Ecco, a questo punto avrei potuto fare moltissime cose. Avrei potuto dirle un sì convinto e sorridente, ma sarebbe stata falsità e non mi sarei sentita a posto dentro, ripensando che avevo usato il cellulare tutto il tempo. No, decisamente non ce l’avrei fatta a essere convincente. Avrei anche potuto dirle che sì, era stata brava, ma che forse lo spettacolo non era proprio adatto a dei ragazzi. Credo che sarebbe equivalso a dirle che non mi era piaciuto. Avrei potuto gentilmente dire la verità, ovvero che mi ero annoiata a morte, oppure avrei potuto arrabbiarmi e urlarle che non doveva proprio invitarci. Ci sarebbe rimasta male e non sarebbe stato giusto, dato che si era impegnata molto. D’altra parte anche il tono della sua domanda non tradiva apprensione, forse non le interessava davvero sapere se c’era piaciuto oppure si era resa conto che c’eravamo annoiati. Quello che mi chiedo, in questi casi, ma spesso anche altre volte, è: qual è il comportamento migliore, se si vuole bene a una persona e non si vuole ferirla? Qual è il confine tra buona educazione e volere davvero bene a una persona? Volere davvero bene, voler far del bene.
Anna, 2B

Cara Anna,
Se vivessi nella società di corte tra il Cinquecento e il Seicento, direi che hai messo in atto l’arte della dissimulazione: una piccola bugia di sopravvivenza. Seneca nella “Lettera 29” a Lucilio, lamentandosi di un certo Marcellino che raramente va a trovarlo, perché teme di sentirsi dire la verità, pensa che «Bisogna dire la verità soltanto a chi è disposto ad ascoltarla», mentre La Bruyère ne “I caratteri” scrive che «Nella vita ci sono frangenti in cui verità e semplicità sono la miglior condotta del mondo». Insomma non se ne esce. O si fa soffrire una persona o si mente. In entrambi i casi ci si sente inadeguati e sleali. In questo caso non si tratta di un problema di verità, ma di differenza di aspettative. La verità che volevi rivelare e che ti sembrava oggettiva, oggettiva non è. La tua speranza era di assistere ad uno spettacolo teatrale classico e la noia è derivata soprattutto dal non essere riuscita a sintonizzarti con l’inatteso. Avresti potuto lasciarti conquistare dalla lingua portoghese, sedurre dalla musica, ed essere trasportata in un altro mondo. Così non è stato. Poiché hai considerato l’imprevisto una sorta di tradimento della tua fiducia, hai deciso che non doveva esserci nulla di interessante nell’esibizione. Come vedi, la nostra disposizione condiziona profondamente il giudizio su ciò che vediamo. Magari lo spettacolo era perfetto. Allora avresti anche potuto dire: «Cara F., mi ha sorpreso per la versatilità con cui sa interpretare molti aspetti della vita teatrale». Se si vuole davvero bene o, come dici tu, si vuole far del bene, forse occorre anche riconoscere che non sempre si è nella disposizione migliore per recepire ogni messaggio. E non sempre chi crede di dire la verità, dice la verità, né chi si comporta in modo educato dissimula emozioni opposte.
Un caro saluto,Alberto

lunedì 4 marzo 2013

Smettere di voler bene




Caro professore,
Poco tempo fa mi è stata fatta una confidenza. Uno dei miei migliori amici mi ha detto che in questo periodo si sente confuso e che ha iniziato a sentirsi con un ragazzo. Mi ha raccontato che quando si vedono lui si sente molto felice, ma che cerca di contenere i suoi sentimenti per paura di un giudizio. Io sono stata la prima persona a cui lo ha detto, e ciò mi ha fatto capire che si fida di me. Aveva paura di perdere la mia amicizia, ma perché? Mi ha spiegato che spesso e volentieri, quando è con gli altri ragazzi della nostra età e si iniziano a fare piccole battute sulle persone omosessuali, lui deve partecipare per poter mantenere una “maschera” dietro cui nascondere se stesso. Ancora oggi si nasconde per paura di perdere i propri amici. Purtroppo capisco la sua paura, perché poco tempo fa ho perso la mia migliore amica, e ciò mi ha fatto molto male. Io cerco tuttora di convincerlo a dire ciò che è senza paura di perdere degli amici, perché intanto ci sarà sempre qualcuno a supportarlo. Solo guardandolo negli occhi capisco che è stanco e che vorrebbe parlare, dire tutto, ma è sempre la paura a trionfare sulla voglia di essere liberi. Ciò che vorrei che lui capisse veramente è che non è importante chi gli piace, ma com’è lui, con la sua gentilezza, con la sua vivacità e con la sua timidezza. Ma ciò che però mi chiedo, che vorrei capire e far capire a lui è questo: è così importante sapere quali sono i gusti di una persona per volergli bene? E si può smettere di voler bene ad una persona dopo aver conosciuto una parte importante di essa?
Annalisa, classe II
 
Cara Annalisa,
Ricevo la tua domanda su un foglio protocollo, scritta a mano con una bellissima calligrafia, senza correzioni. So che l’hai scritta in pochi minuti in un ritaglio di tempo scolastico. Ed è venuta fuori perfetta, come una meditazione preparata da tempo. Nella tua lettera non ci sono solo delle richieste, ma ci sono molte risposte. Quella che suggerisci a me, quella che parla di te, quella che offri al tuo amico, quella che esponi a tutta la comunità dei tuoi compagni, quella che indirizzi agli amici del tuo confidente, quella che rivolgi a tutti i lettori. Poiché c’è una così grande maturità nel tuo discorso, vorrei semplicemente metterne in luce alcune direttrici. Cominciamo. Al tuo amico. Spero che legga la tua lettera (se puoi, fagliela leggere). Deve essere fiero di te, ha trovato una vera amica che lo accetta; ha incrociato una ragazza che non è interessata alle apparenze o, come dici tu, «alla maschera», e che non si nasconde per timore delle rivelazioni. Averne amiche così. (È fortunato) A te. Questa lettera parla di te, di una ragazza che ama i suoi amici, e nei rapporti interpersonali cerca la schiettezza e si sente onorata quando qualcuno la rende partecipe del proprio vero mondo interiore. L’autenticità è ciò che ti interessa, guardi all’essenziale e sai creare relazioni genuine in grado persino di sostenere i coetanei in difficoltà. Sei una ragazza davvero matura. A tuoi compagni. Non si smette di voler bene ad una persona, quando questa rivela una parte profonda si sé. Spero che imparino ad accettare le persone e comprendano quanta sofferenza si provoca escludendo dal gruppo coloro che manifestano un sentire diverso. Tutti i ragazzi hanno bisogno di sentirsi amati e valorizzati dai pari. Agli amici del tuo confidente. Spero che sappiano scorgere ed amare la «gentilezza», la «vivacità» e la «timidezza», del tuo amico; che riescano a contemplarlo con i tuoi occhi e a rispettarlo per quello che è. E che preferiscano anche loro la verità e la libertà di tutti i componenti del gruppo, e sentano che certe paure discriminanti originano dolore e sfinimento negli amici più cari. A tutti i lettori. Spero che le persone sappiano scrutare il prossimo negli occhi, come fai tu, e comprendano quanta gente «stanca» c’è in giro, che invece porta su di sé molti tormenti a causa di pregiudizi opprimenti. A me. Scopro ogni giorno che ricevo dalle vostre lettere tanto quanto assorbo dai filosofi che cerco di raccontarvi, perché nei vostri messaggi c’è più vita, saggezza e verità che in tante pagine “d’autore”.
Un caro saluto,
Alberto