Clara Usón, La figlia, Palermo, Sellerio, 2013, pp. 488, euro 16,00.
«Il rifiuto della differenza»
era considerato dallo studioso Stefano Bianchini – specialista di storia
balcanica contemporanea – il tratto dominante della guerra inter-jugoslava. E
da questo rifiuto della diversità abbiamo assistito dal 1991 al 1995 ad un
conflitto tra culture politiche che ha prodotto massacri e violenze inauditi.
Clara Usón racconta la storia del conflitto nell’ex-Jugoslavia con un romanzo
storico potente, che fa comprendere attraverso la vita di Ana la tragedia della
guerra, le mistificazioni dell’informazione, i crimini efferati, i tratti
salienti dei protagonisti ironicamente chiamati “eroi”. Ana è la figlia
generale Mladić, la migliore alunna del corso di medicina di Belgrado,
l’orgoglio del padre. Vive in Macedonia fino a 19 anni, poi si trasferisce a
Belgrado per studiare; con l’amica Nadica prepara le lezioni e passa molte
notti in bianco per preparare gli esami. Vuole essere degna del padre, far sì
che egli sia orgoglioso dei suoi successi. Sente fortemente l’appartenenza alla
propria nazione e detesta coloro che non manifestano sufficiente attaccamento
alla propria cultura. Tuttavia, al ritorno da un soggiorno a Mosca, non è più
la stessa, afferra la Zastava, la pistola di famiglia e decide di morire. Ha
solo ventitré anni. Forse ha capito chi è il padre e ha intravisto in lui
qualcosa di spaventoso. Ha compreso che l’eroe, il genitore premuroso, è invece
un criminale terribile, responsabile di azioni nefande: dall’assedio di
Sarajevo, alla pulizia etnica in Bosnia, al massacro di Srebrenica. E che una
terribile accusa di genocidio grava su di lui. La scrittrice, intrecciando
storia e creatività letteraria, ripercorre i tratti peculiari della guerra, rivela
l’ego e l’alter-ego dei protagonisti (Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e
Ratko Mladić), e narra la progressiva perdita di innocenza della ragazza. A
Sarajevo, in fondo, è stata anch’essa vittima della propaganda della
“slobovisione”, perché era addirittura convinta che non fossero stati i Serbi
ad accerchiare Sarajevo, ma i musulmani ad assediarla dall’interno, e che i
turchi fossero riusciti ad ingannare la Nato, per far cacciare i Serbi dalla
Bosnia. «Tu non hai nessuna colpa delle atrocità compiute da quegli
psicopatici di Karadžić e Mladić» (p. 233), dice un’amica ad Ana, dopo aver
visionato con lei alcuni documentari sulle violenze perpetrate dai serbi nei
confronti dei musulmani a Sarajevo. Ma Ana ascolta le registrazioni e sente la
voce di un uomo che ordina efferatezze. È quella del padre. Porta dentro di sé
un peso insopportabile: essere la figlia dell’uomo che ha comandato i massacri
contro i civili. La tragedia ricorda lo choc analogo che ebbe il figlio di
Eichmann, quando comprese chi era il padre. Günther Anders, che cercò di
interpretare tale sconcerto, scrisse “l'origine non è una colpa. Nessuno è
artefice della propria origine, neppure lei”. Ma il disincanto qui conduce
ad un altro esito: la sovrapposizione di due immagini, quella del padre
affettuoso e quella dell’uomo che ha compiuto crimini contro l’umanità non
conduce alla rimozione, ma alla destabilizzazione esistenziale. Un libro
splendido, una scrittura eccellente. Una storia vera.
un caro saluto,
Alberto
un caro saluto,
Alberto
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