Caro professore,
Alcuni giorni fa parlando con un mio conoscente ho capito di essere invidioso di lui, perché la maggior parte delle volte lui è più fortunato di me e riesce ad ottenere quasi sempre ciò che vuole. Questo mi ha fatto pensare che tutti almeno una volta nella vita sono stati invidiosi di qualcun altro. Alcune volte l'invidia può anche farci sentire male con noi stessi. La mia domanda è: perché la maggior parte delle persone è invidiosa degli altri invece di cercare di imparare qualcosa da essi?
Alessandro IV E
Caro Alessandro,
Seneca, nelle “Lettere a
Lucilio”, scriveva che «secondo un antico precetto, inoltre, bisogna
adoperarsi per evitare tre pericoli: l'odio, l'invidia, il disprezzo». Si
tratta, infatti, di tre sentimenti che procurano grande danno a chi li prova o
da essi si lascia vincere. Il filosofo racconta poi che anche un re può provare
invidia per un condannato a morte. Scrive l’autore: «Dovrei esitare a lodare
quel moncherino bruciato di Muzio [Scevola] più della mano intatta di qualsiasi
uomo valorosissimo? Rimase fermo, disprezzando i nemici e le fiamme e guardò la
propria mano consumarsi sul braciere del nemico, finché Porsenna provò invidia
per la gloria di colui che voleva punire e ordinò di portar via il braciere contro
la sua volontà». Come può un re avvertire grande assillo per un uomo
privato della libertà e in procinto di essere giustiziato? Ma se un gesto
valoroso offusca il prestigio del sovrano, allora ecco che scatta l’invidia.
Già, perché come ricorda la filosofa Elena Pulcini in un libro interamente
dedicato a questo tema (Il Mulino 2011), «l’invidia nasce dal confronto».
“In-videre”, infatti, significa non riuscire a guardare l’altro in modo
corretto, e dunque l’invidia è un guardar male. Baruch Spinoza nell’“Etica”
(1677) scrive che «L'invidia è odio, in quanto modifica l'uomo in maniera
tale che egli si rattristi della felicità di un altro, e goda invece
dell'altrui male». (È pertanto un sentimento opposto alla misericordia –
che è invece una forma di amore – in quanto l’uomo misericordioso gode del bene
altrui e si rattrista invece dell’altrui male). Il filosofo contemporaneo
Salvatore Natoli, nel “Dizionario dei vizi e delle virtù” (Feltrinelli
1996, 2006) afferma che «uno dei fattori per lo scatenarsi dell'invidia è
l'impotenza, sia come impotenza di fatto che come sentimento d'impotenza».
Questo emerge anche dalla tua riflessione. L’invidia di cui parli nasce infatti
sia da «un’impotenza di fatto» («[lui] riesce ad ottenere quasi
sempre ciò che vuole») sia da un «sentimento di impotenza» («è
più fortunato di me»). Natoli – sulla strada inaugurata da Spinoza –
ritiene che ogni esistenza sia una «puntuazione di forza», ossia una
potenza finita e limitata che vive in un delicato rapporto tra «bisogno
d'espansione» e «insofferenza del limite». L’impotenza è
l’incapacità o l’impossibilità di raggiungere la meta dei propri desideri.
Poiché spesso non siamo in grado di valutare la nostra forza in riferimento
all’obiettivo che ci proponiamo, non sappiamo se ci siamo posti una meta troppo
alta e inadeguata alle nostre capacità. Così, invece di fare riferimento alle
forze (da considerare) e agli obiettivi (da modificare) in relazione alle
caratteristiche individuali, ci confrontiamo con gli altri. Poiché alcune persone
raggiungono le mete da noi desiderate, l’impotenza di fatto si trasforma in
sentimento di impotenza e da qui nasce l’invidia (l’unico vizio che purtroppo
non procura alcun piacere). Natoli ritiene che fatichiamo a sopportare i nostri
limiti naturali in quanto la società stabilisce il valore delle persone in base
agli obiettivi che esse conseguono. Se veniamo riconosciuti solo per i
traguardi raggiunti, allora è inevitabile che la vittoria di un’altra persona
diventi il metro con il quale misuriamo noi stessi. Per questo l’impotenza
genera il «tormento dell’impotenza». Tuttavia, l’invidia diminuisce se
impariamo a perfezionare le nostre abilità e a non assumere i successi altrui
come parametri per giudicare la realizzazione individuale. Fatto questo, di solito,
passiamo facilmente all’ammirazione. Goethe, nel romanzo “Le affinità
elettive”, scrive infatti: «Contro la grande superiorità di un altro non
c'è mezzo di salvezza all'infuori dell'amore».Un caro saluto,
Alberto
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