Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 24 febbraio 2014

Un segno indelebile




Caro professore,
Due settimane fa ho fatto il mio primo tatuaggio, una scritta sul braccio che recita: «What doesn't kill me makes me stronger» («Tutto quello che non mi uccide, mi rende più forte»). Nella nostra vita sono tante le situazioni difficili, ma è solo grazie a queste che si diventa più forti. Noi siamo tutto ciò che abbiamo vissuto e quindi siamo le nostre esperienze, stupende o dolorose che siano; queste ultime, molto difficili da superare, se non ci uccidono, ci cambiano radicalmente, rendendoci più forti e pronti ad affrontare situazioni analoghe. La frase può essere riferita sia a fatti passati sia a quelli futuri, cosicché saremo sempre pronti a rialzarci e a combattere per il nostro bene.
Marco, 4E


Caro Marco,
Incuriosito per questa frase inglese dal retrogusto “filosofico” ho cercato su internet se era tornata di moda tra gli adolescenti e ho scoperto che una giovane artista contemporanea, Kelly Clarkson, nell’album “Stronger”, ha inciso una canzone dal titolo “What Doesn’t Kill You”. E ho appreso che esiste anche un film dal titolo «What Doesn't Kill You» di Brian Goodman uscito qualche anno fa in America. Non so se ti sei ispirato al testo della canzone o al film per il tuo tatuaggio, ma io – che sono, ahimè, più vecchio (ma non di tanto) – conoscevo la citazione di Nietzsche: «Quel che non mi uccide, mi rende più forte» («Was mich nicht umbringt, macht mich stärker»), scritta in “Crepuscolo degli idoli” del 1888. Mi sono stupito a leggere sul braccio di un italiano una frase in inglese di un autore tedesco, ma ovviamente chissà in quante lingue è stata tradotta questa intuizione: è il cammino delle idee e – a dir la verità – non so neppure se Nietzsche l’abbia ripresa da qualche autore del passato. È arrivata a te forse grazie ad una canzone, evidentemente con molta forza, ma l’energia non è minore di quella con cui era pervenuta anche a me, e a quelli della mia generazione, grazie a un libro. Allora ho capito non tanto «l’eterno ritorno» di Nietzsche, ma che è arrivato per me il momento per un bilancio personale. Io, una frase bella, ad effetto, la scrivevo prosaicamente su un quaderno, tu l’hai incisa sul corpo. Credo che abbia la stessa funzione di protezione psicologica, ma ritengo che ci voglia più coraggio per mettere un sostegno psicologico sul corpo che nelle pieghe di un diario. Nei momenti di difficoltà, quando tornavo a casa, aprivo il diario e leggevo se c’era qualcosa di buono, se proprio dovevo sollevarmi da qualche delusione o cercare della forza interiore; tu, la difesa ce l’hai addosso e non la devi sussurrare a te stesso o a qualcuno, semplicemente la mostri agli altri o la guardi nel luogo dove sei, dove accadono gli eventi e non dopo. Non c’è distanza tra frustrazione e rimedio, tra ferita e medicamento: il tuo corpo è contemporaneamente forza e difesa; il rifugio non è la tua cameretta, sei tu. Ogni delusione avrà così l’antidoto sempre a portata di mano (di braccio). Chissà, dicono che sia una moda quella dei tatuaggi, però mi viene in mente che la differenza tra scrivere su un diario o su un corpo è anche un modo diverso di guardare la vita. Chi scrive sul diario raccoglie aforismi e per quanto si identifichi provvisoriamente in un’idea, non la considera definitiva, crede che prima o poi troverà altre frasi ancora più significative (cerca delle verità ultime?). Insomma, è inconsciamente pervaso dal desiderio di lasciare la porta aperta al futuro, ma rinvia sempre l’identificazione. Anche se qualcuno dice che siamo più fragili quando scriviamo sul corpo, io credo che questa azione esprima anche il coraggio della scelta, l’assunzione di una posizione precisa. Quando ero un adolescente come te, in un momento in cui avevo molte attività e temevo di non riuscire a portare avanti tutto, mi ero soffermato su un’espressione con cui Hans Küng descriveva Pascal: «Le difficoltà non lo spaventano, ma piuttosto lo stimolano all'impegno supremo». Mi sembrava molto bella; Pascal aveva problemi di salute, e quindi reputavo che quelle parole potessero essere un’iniezione di forza anche per me, confinato nei miei piccoli lavori. Avevo capito che non dovevo brontolare e che al mondo c’erano molte persone che erano riuscite a superare duri impedimenti con grande dignità. L’ho tenuta per qualche tempo su un bigliettino appoggiata al vaso di fiori al centro del tavolo della camera. Mi accorgo ora che non ci sono molte differenze con la tua frase: entrambe fanno riferimento alla forza interiore per superare gli scogli della vita e per non abbattersi. Così ho pensato che, in fondo, abbiamo bisogno dello stesso nutrimento per stare in piedi e, per un momento, mi sono sentito un po’ meno vecchio, ma soprattutto meno lontano da te.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 17 febbraio 2014

La coerenza

File:Maestro dei mesi, 01 giano bifronte (anno vecchio e anno nuovo) gennaio, 1225-1230 ca. 03.JPG

Caro professore,
mi ha fatto riflettere la lettura della morte di Socrate, il primo uomo di una lunga serie morto a causa delle sue idee. Interessante notare come la coerenza, in un mondo come il nostro in cui i soldi sono la cosa più importante e superano di gran lunga gli ideali (fortunatamente non in tutte le persone), sia direi scomparsa. Noi giovani come facciamo allora a fondare la nostra vita su una società del genere? Come possiamo riottenere una società fondata sui valori piuttosto che sui soldi?
Lorenzo, 3F

Caro Lorenzo,
La coerenza è un valore se è legata al bene, altrimenti non è di per sé un valore. Cosa diresti di un criminale che per “coerenza” con il proprio passato continua a reiterare i propri errori o di un dittatore che per altrettanta “coerenza” priva i cittadini della libertà? Quello che noi amiamo o stimiamo in Socrate o in innumerevoli persone che si sono comportate come lui è la continua tensione della vita alla ricerca della verità e del bene, indipendentemente dal bieco tornaconto, dalla facile popolarità, dall’immediato opportunismo o dal guadagno economico. Stimiamo l’autonomia di giudizio, la conformità tra il pensiero e la vita e la fedeltà ai propri insegnamenti, e siamo solidali con coloro che hanno ancorato la propria coerenza non a generici valori individuali, ma a valori collettivi, intergenerazionali, esemplari e condivisi. Ammiriamo l’autodeterminazione e la libertà della persona, ma solo quando essa spende la vita per nobili valori. La filosofa italiana Roberta De Monticelli (“La novità di ognuno” 2009) ricorda che non siamo in fondo «assiologicamente neutrali» o «indifferenti». L’assiologia (axios-logos) è il discorso (logos) su ciò che è degno e valido (axios), ossia sui valori; pertanto, gli ideali selezionati dal soggetto che decide apertamente la propria condotta di vita non sono affatto irrilevanti per valutare la bontà (e la validità) della sua “coerenza”. Non è detto che oggi la coerenza sia scomparsa, forse si è declassata nel perseguimento di mete modeste e capricci egoistici. Certo, è vero che molto spesso gli adulti non offrono esempi positivi per i giovani e che la ricerca esasperata del denaro snatura la ricerca di valori intersoggettivi. Emanuele Severino ne “Il declino del capitalismo” (1993) ha spiegato il ribaltamento delle priorità nel mondo capitalistico in questo modo: se in passato il denaro era considerato un mezzo per raggiungere degli scopi, poiché oggi è diventato il «mezzo universale» per realizzare qualsiasi scopo, l’obiettivo degli uomini è «controllare il mezzo universale» che, pertanto, da semplice strumento è diventato lo scopo primario dell’agire. Anche se la nostra epoca ha creato un’inversione tra mezzi e fini, non è detto che il modello economico su cui si basa duri eternamente, perché il capitalismo – secondo l’autore – per sopravvivere non dovrà distruggere la Terra e dunque dovrà rinunciare all’obiettivo intrinseco del profitto illimitato. Costretto a perseguire un altro fine rispetto ad un utile smisurato dovrà dunque snaturarsi. Staremo a vedere. Una persona matura e responsabile non fonda la propria vita su una parola generica come “la società”, fonda la propria vita su ciò che ritiene degno; ed è possibile – sicuramente a livello individuale – ristabilire una gerarchia di valori che non comprenda al vertice in modo esclusivo quello pecuniario. Comporre la propria vita è un po’ come progettare la propria casa. Nella tua abitazione metti quello che ritieni indispensabile e bello per una vita buona. Scegli i colori delle pareti, i libri, le musiche, l’arredamento. Così facciamo anche per la nostra vita morale: scegliamo dei modelli a cui vogliamo ispirare la nostra azione. Pensiamo alle persone importanti che stimiamo e decidiamo che la nostra vita ruoterà intorno a questi cardini, perché li sentiamo giusti e perché sappiamo che da essi deriverà un benessere profondo e duraturo. Nella lettera n. 20 a Lucilio, Seneca afferma che la filosofia insegna la coerenza tra parole e azioni. Scrive Seneca: «Ma, Lucilio mio, ti prego e ti esorto, fa’ discendere i princìpi filosofici sin nel profondo dell'animo, e trai la prova del tuo progresso non dai discorsi o dagli scritti, ma dalla fermezza dell'animo e dalla riduzione delle passioni: dimostra con i fatti la verità delle parole». È difficile? Ovvio, e anche Seneca lo sapeva. Però diceva: «Certo, è difficile; non dico che il saggio camminerà sempre con lo stesso passo, ma che camminerà sempre per una medesima strada».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 10 febbraio 2014

E se Pascal si sbagliasse?


 
Caro professore,
sono rimasto piacevolmente impressionato dalla riflessione matematica di Pascal riguardo la scommessa sul credere o meno nell’esistenza di Dio. Il ragionamento appare perfetto, eppure mi è sorto immediatamente un dubbio che molti classificherebbero come irrazionale: chi ci dice che non vi sia la possibilità che la vita oltre la morte sia data a colui che in vita decide di non credere nell’esistenza di Dio? Chi ci dice che tale vita non sia affidata a coloro che in vita decisero di non affidarsi a qualcosa di dubbioso e incerto (l’esistenza di Dio), ma di affidarsi alla concretezza della vita sulla Terra? In fondo nessuno può dire che questa mia semplice teoria possa essere del tutto sbagliata in quanto nessuno è mai potuto tornare dal regno dei morti. Questa mia considerazione non esclude l’esistenza di Dio, semplicemente pone Dio come elemento che premia coloro che in vita si sono affidati alle loro possibilità di uomo e non a coloro che hanno utilizzato Dio come appoggio o pretesto in vita per non agire al massimo delle proprie potenzialità.
Andrea, 4F

Caro Andrea,
Quando Gesù dice: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio» (Mt. 7, 21), intende che Dio guarda al sodo e non alle parole; pertanto, la tua domanda non è affatto irrazionale. Penso che si possa dividere in due questioni: 1) è morale il comportamento di chi agisce per ottenere una ricompensa o la vera moralità consiste nell’agire esclusivamente operando il bene senza attendere gratificazioni presenti o future? 2) Gli uomini non usano talvolta Dio come pretesto per non impiegare a fondo le proprie potenzialità in questo mondo? La prima. Kant ci aiuta, perché quando parla dei “moventi” delle azioni (Critica della ragion pratica, cap. III) distingue tra “legalità” e “moralità”. Se interrogato in un processo dico la verità, perché temo di essere scoperto o se dico la verità perché ritengo sia un dovere non mentire, in entrambi i casi i miei interlocutori ascolteranno dichiarazioni autentiche, ma le due azioni non possono essere considerate entrambe “morali”. Nella prima ipotesi, il mio comportamento si basa sul “semplice” (si fa per dire) rispetto della legge (legalità) e non deriva dall’autonomia di giudizio e dall’intenzione di fare ciò che è razionale. In questo senso, quando l’uomo agisce in vista di un premio, secondo Kant fa ancora riferimento ad una morale “eteronoma”, ossia fonda il movente della propria azione sull’autorità di altri (l’educazione, il sentimento, le norme civili, la volontà di Dio) e non sulla propria autonoma e libera scelta. E la morale cristiana? Kant scrive che «il principio cristiano della morale non è teologico (quindi eteronomo), perché la «la morale fa della conoscenza di Dio e della sua volontà la base non di queste leggi [della legge morale], ma solo della speranza di pervenire al sommo bene alla condizione di osservare tali leggi». Dio non è quindi il movente delle azioni  – il movente è la ragione –, ma per l’uomo che segue la morale, diventa lecito “sperare” in Dio. La seconda parte della domanda dà per scontato che talvolta Dio sia una via di comodo per non impegnarsi troppo nel proprio tempo. Certo, non mancano le riflessioni di coloro che sottolineano che si usa Dio in modo troppo comodo – potremmo dire che gli uomini «nominano il nome di Dio invano» –, quando rinunciano a capire o ad agire, o utilizzano Dio come “tappabuchi” (“Luckenbusser”), come scrive Dietrich Bonhoeffer  in “Resistenza e resa”. Ma è altrettanto vero che molte persone proprio in riferimento a Dio vivono una vita particolarmente attiva nel mondo. Quindi Dio può sia essere un alibi per rinunciare al cambiamento (alcuni filosofi dell’Ottocento hanno messo in luce questo aspetto), sia una fonte di ispirazione al bene. In un articolo scritto per il «Financial Times» nel 2012 Benedetto XVI scriveva che i cristiani «combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano creato a immagine di Dio» e che hanno il dovere di prendersi cura «dei più deboli e dei più vulnerabili». Nell’enciclica “Caritas in veritate” (2009) scrive ancora che «L’amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace». E più avanti afferma che «responsabilità e impegno» derivano dall’amore che è il presupposto del cristianesimo. C’è un vivere cristiano che è pienezza di vita e impegno profondo nel sociale motivato dalla consapevolezza che l’insegnamento del Vangelo sollecita la ragione a scoprire la legge morale, nella “speranza” che, osservandola, gli uomini possano «pervenire al sommo bene».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 3 febbraio 2014

Smarrirsi nel viaggio



Caro professore,
da quando sono tornata in Italia, dopo il mio anno all'estero, mi sento persa. La mia esperienza è stata fantastica e sono davvero felice e soddisfatta di essa, ma non credevo che riprendere la mia vita qui sarebbe stato così difficile. Tutto ciò che faceva parte della mia vita prima della partenza, adesso mi sembra insignificante. Da quando sono tornata, sento come un vuoto. Tutte le sicurezze che avevo, adesso sembrano svanite. Al mio ritorno ho notato che, durante il mio anno di assenza, le cose non sono cambiate molto; anzi, probabilmente sono io ad essere cambiata, ma non riesco a capire come sia possibile che tutto ciò che mi appassionava, tutto ciò facevo, tutto quello che era la mia vita prima, adesso mi sembri così lontano e soprattutto non adatto a me. Vorrei riuscire a far svanire questa sensazione di vuoto che sento dentro. Forse il problema è che non sono ancora riuscita a chiudere quel capitolo della mia vita che ho vissuto in un paese completamente diverso e davvero meraviglioso, per questo non riesco a vivere al cento per cento qui. 
Giada, 5C 

Cara Giada,
Spesso chiamiamo viaggi quelli che in realtà sono solo degli spostamenti: trasferiamo il corpo da un luogo all’altro, ma l’immaginazione e lo spirito rimangono saldamenti ancorati alle abitudini; stiamo persino attenti a non essere troppo disorientati e cerchiamo in luoghi lontani le comodità del nostro mondo. Spesso rinunciamo alla scoperta, perché visitiamo ciò che le agenzie ci dicono di ammirare e al ritorno confermiamo le previsioni: partiamo così con l’immaginazione satura, senza tempo sufficiente né per una reale assimilazione delle diversità né per essere scossi dai contrasti. L’antropologo francese Marc Augé scriveva infatti che «Per non deludere, la realtà dovrà asso­migliare alla sua immagine». Ma un anno in America Latina ha invece prodotto un’autentica esperienza non solo di dislocazione nello spazio, ma dei confini dell’io, ed è normale che lo smarrimento dopo una permanenza così lunga sia così profondo. Augé, in Rovine e macerie. Il senso del tempo (2004), ci aiuta a riflettere su tre concetti che hanno a che vedere con il viaggio: «il ritorno, la sospensione e l’inizio». Egli ricorda che in ogni impresa umana il ritorno al punto esatto di partenza è impossibile: così è accaduto a Ulisse nell’Odissea, e altrettanto ad Edmond Dantès, protagonista del Conte di Montecristo. Entrambi tornano, certo, ma non sono più gli stessi. Il ritorno nello stesso punto è infatti impraticabile e illusorio, perché occorrerebbe rimuovere tutto ciò che è accaduto tra la partenza e il rientro («i derivati della memoria, le os­sessioni della vendetta, dell'attesa o del desiderio, gli incontri, la quotidianità, l'invecchiamento hanno eli­minato il sapore preciso del passato»). Non è neppure possibile arrestare la trasformazione tra il commiato dal proprio paese e il rimpatrio, perché in quella pausa prolungata – in quel provvisorio stand-by in cui si «sospende» la vita in un luogo e poi la si riprende – il tempo continua a scorrere, mutando la scena e i protagonisti. Le attività quotidiane e le tue passioni ti sembrano ora rituali che si sono svuotati di significato. Ma il nuovo inizio non può essere semplicemente la riproposizione identica di un’attività nello stesso contesto da cui ti sei allontanata. Infatti, ogni nuovo inizio è una ripresa, e la ripresa non è la ripetizione identica di ciò che è stato, ma – come diceva Kierkegaard – è invece apertura al nuovo. È una ripartenza con nuova sensibilità, nuove aspettative, nuove idee, nuova fiducia. Da un vero viaggio torniamo sempre “cambiati”, perché grazie alle esperienze non facciamo altro che scomporre e ricomporre il senso che diamo agli eventi. Nei viaggi ci perdiamo e ci ritroviamo, abbandoniamo significati e ne costruiamo altri, scopriamo differenze, introiettiano alterità e talvolta ci sentiamo più soli ad intraprendere la nostra strada. Il vuoto che senti è dato dall’impossibile sovrapposizione di mondi e culture lontane – delle immagini del mondo che hai scoperto e amato con quelle del mondo che hai ritrovato, e delle immagini di te stessa: della ragazza arricchita dall’esperienza con il ricordo sbiadito di te. Nella vita non si ritorna mai al punto di partenza come in un gioco in cui si ritorna al via: si riscrive inevitabilmente altra vita. Il tuo sguardo retrospettivo sull’intenso vissuto non può «chiudere un capitolo», come si archivia un documento, ma solo aprire altre pagine da scrivere autonomamente, sapendo che l’incertezza è costitutiva dell’essere umano, perché in generale la vita, quando non è scritta sotto dettatura, genera un senso di spaesamento che è poi la condizione del movimento nella libertà.
Un caro saluto,
Alberto