Caro professore,
sono rimasto piacevolmente impressionato dalla
riflessione matematica di Pascal riguardo la scommessa sul credere o meno
nell’esistenza di Dio. Il ragionamento appare perfetto, eppure mi è sorto
immediatamente un dubbio che molti classificherebbero come irrazionale: chi ci
dice che non vi sia la possibilità che la vita oltre la morte sia data a colui
che in vita decide di non credere nell’esistenza di Dio? Chi ci dice che tale
vita non sia affidata a coloro che in vita decisero di non affidarsi a qualcosa
di dubbioso e incerto (l’esistenza di Dio), ma di affidarsi alla concretezza
della vita sulla Terra? In fondo nessuno può dire che questa mia semplice
teoria possa essere del tutto sbagliata in quanto nessuno è mai potuto tornare
dal regno dei morti. Questa mia considerazione non esclude l’esistenza di Dio,
semplicemente pone Dio come elemento che premia coloro che in vita si sono
affidati alle loro possibilità di uomo e non a coloro che hanno utilizzato Dio
come appoggio o pretesto in vita per non agire al massimo delle proprie
potenzialità.Andrea, 4F
Caro Andrea,
Quando Gesù dice: «Non
chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che
fa la volontà del Padre mio» (Mt. 7, 21), intende che Dio guarda al sodo e
non alle parole; pertanto, la tua domanda non è affatto irrazionale. Penso che
si possa dividere in due questioni: 1) è morale il comportamento di chi agisce
per ottenere una ricompensa o la vera moralità consiste nell’agire esclusivamente
operando il bene senza attendere gratificazioni presenti o future? 2) Gli
uomini non usano talvolta Dio come pretesto per non impiegare a fondo le
proprie potenzialità in questo mondo? La prima. Kant ci aiuta, perché
quando parla dei “moventi” delle azioni (Critica della ragion pratica,
cap. III) distingue tra “legalità” e “moralità”. Se interrogato
in un processo dico la verità, perché temo di essere scoperto o se dico la
verità perché ritengo sia un dovere non mentire, in entrambi i casi i miei
interlocutori ascolteranno dichiarazioni autentiche, ma le due azioni non
possono essere considerate entrambe “morali”. Nella prima ipotesi, il
mio comportamento si basa sul “semplice” (si fa per dire) rispetto della
legge (legalità) e non deriva dall’autonomia di giudizio e dall’intenzione di
fare ciò che è razionale. In questo senso, quando l’uomo agisce in vista di un
premio, secondo Kant fa ancora riferimento ad una morale “eteronoma”,
ossia fonda il movente della propria azione sull’autorità di altri
(l’educazione, il sentimento, le norme civili, la volontà di Dio) e non sulla
propria autonoma e libera scelta. E la morale cristiana? Kant scrive che «il
principio cristiano della morale non è teologico (quindi eteronomo), perché
la «la morale fa della conoscenza di Dio e della sua volontà la base
non di queste leggi [della legge morale], ma solo della speranza di
pervenire al sommo bene alla condizione di osservare tali leggi». Dio non è
quindi il movente delle azioni – il
movente è la ragione –, ma per l’uomo che segue la morale, diventa lecito “sperare”
in Dio. La seconda parte della domanda dà per scontato che talvolta Dio
sia una via di comodo per non impegnarsi troppo nel proprio tempo. Certo, non
mancano le riflessioni di coloro che sottolineano che si usa Dio in modo troppo
comodo – potremmo dire che gli uomini «nominano il nome di Dio invano»
–, quando rinunciano a capire o ad agire, o utilizzano Dio come “tappabuchi” (“Luckenbusser”),
come scrive Dietrich Bonhoeffer in “Resistenza
e resa”. Ma è altrettanto vero che molte persone proprio in riferimento a
Dio vivono una vita particolarmente attiva nel mondo. Quindi Dio può sia essere
un alibi per rinunciare al cambiamento (alcuni filosofi dell’Ottocento hanno
messo in luce questo aspetto), sia una fonte di ispirazione al bene. In un
articolo scritto per il «Financial Times» nel 2012 Benedetto XVI scriveva che i
cristiani «combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di
ogni essere umano creato a immagine di Dio» e che hanno il dovere di
prendersi cura «dei più deboli e dei più vulnerabili». Nell’enciclica “Caritas
in veritate” (2009) scrive ancora che «L’amore – «caritas» – è una forza
straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel
campo della giustizia e della pace». E più avanti afferma che «responsabilità
e impegno» derivano dall’amore che è il presupposto del cristianesimo. C’è
un vivere cristiano che è pienezza di vita e impegno profondo nel sociale
motivato dalla consapevolezza che l’insegnamento del Vangelo sollecita la
ragione a scoprire la legge morale, nella “speranza” che, osservandola, gli
uomini possano «pervenire al sommo bene». Un caro saluto,
Alberto
Nessun commento:
Posta un commento