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Cor-rispondenze

lunedì 31 marzo 2014

Perseverare nei sogni



Caro professore,
Tutti quanti nasciamo con l’idea di voler vivere una vita che non sia mai monotona, di poter fare per sempre ciò che realmente ci appassiona. Nasciamo col desiderio di poter cambiare le cose, cambiarle in meglio. Fin da piccoli ci abituiamo a coltivare un sogno che spesso sembra poco probabile o molto difficile da realizzare. Crescendo ci lasciamo trasportare da infinite variabili esterne che ci fanno perdere la voglia di crederci fino in fondo. «Tanto ci riesce una persona su un milione», «figurati se fila tutto liscio»; la nostra testa si riempie di dubbi, basta poi qualcuno che aggiunga ulteriore diffidenza ed ecco che tutto rischia di crollare. Se davvero dobbiamo raggiungere un obiettivo non dovremmo mai ascoltare queste voci. Ho visto tanti sognatori restare tali senza capire che sognare non basta più. A me sognare non potrà mai più bastare. Quello che voglio fare è realizzare. Si sa, se si vogliono raggiungere cose che agli occhi di tutti sono difficili, bisogna essere disposti a dare tutto senza fermarsi, e crederci sempre. Noi giovani spesso cominciamo qualcosa e dopo poco tempo lasciamo perdere. Tutto questo perché non sempre siamo in grado di motivarci, non sempre capiamo che è necessario fare dei sacrifici e fare cose che gli altri non sarebbero disposti a fare. Perché non si è più disposti ad inseguire un obiettivo, un sogno, fino alla fine? Insomma, essere disposti a pagare il prezzo che ogni desiderio possiede?
Chiara, 3F
 


Cara Chiara,
La tua lettera è piena di forza e di concretezza: «Sognare non basta più», «A me sognare non potrà mai più bastare». Dici bene: lo sguardo fluttuante, la discontinuità della direzione, gli inevitabili dubbi, il sospetto – anche in buona fede – che proviene dalle persone care, la casualità degli eventi rendono incerti i progetti più arditi o più personali. Confidare nelle proprie idee è pertanto indispensabile, ma per realizzare i propositi è essenziale una forza che gli antichi chiamavano perseveranza. Per dar vita ad un sogno non è sufficiente richiamare l’attenzione su di sé o su un ipotetico progetto incantatore. Seneca, ad esempio, avvertiva Lucilio di stare attento e di evitare coloro «desiderano non progredire, ma farsi notare». Alcune persone sono incapaci di gestire la propria rotta e sono piuttosto trascinate inavvertitamente dalla corrente. Scrive il filosofo: «Pochi sono quelli che regolano se stessi e le proprie azioni secondo un progetto: gli altri, come le cose che galleggiano sui fiumi, non avanzano, ma vengono trasportati; fra questi, alcuni sono trattenuti da un’onda più leggera e spo­stati con più dolcezza, altri sono trascinati da una più violenta, altri sono deposti vicino alla riva da una corrente che si illanguidisce, altri sono gettati in mare dall’impeto delle acque. Perciò, dobbiamo determinare che cosa vogliamo, e per­severare in tale proposito» (Lettera 23, 8). «Determinare cosa vogliamo» e «perseverare» significa che è necessario non solo chiarire a se stessi un obiettivo, ma confermarlo nel tempo; rimanere fedeli a un proposito che si è originato da una passione o da una motivazione intima, senza eccessivi indugi, coscienti che la dedizione implica necessarie rinunce. Seneca sosteneva che la differenza tra il proprio lavoro e quello di altri uomini non consisteva nelle sue presunte maggiori abilità, ma nella disponibilità a lavorare con continuità alla propria opera; considerava dunque la regolarità nell’attività ordinaria come il proprio vantaggio. Quando, considerando la propria vita, valuta se, nonostante tutte le difficoltà, la strada della perseveranza abbia dato i suoi frutti, egli afferma che, se potesse ricominciare una nuova infanzia, impiegherebbe probabilmente soluzioni analoghe a quelle adottate nella realtà. Per questo egli invita spesso Lucilio ad essere forte. In questa instancabile esortazione leggiamo dunque l’invito a non capitolare facilmente al primo refolo di vento contrario: in fondo il perseverante è colui che è in grado di sopportare, ossia di portare su di sé, la fatica. Tommaso d’Aquino, nella “Summa Theologica”, insegna che chi persevera nei propri obiettivi, ha raggiunto un buon equilibrio nel dominare le proprie azioni e afferma che i vizi che si oppongono alla perseveranza sono la «mollitia» e la «pertinacia». Come un materiale molle cede facilmente al tatto, l’uomo molle è colui che non riesce a resistere a nulla: una leggera pressione o una minima difficoltà sconvolgono i suoi propositi. Poiché Tommaso è lungimirante (anticipa il nostro tempo), ricorda che la «mollezza» deriva anche dall’abitudine al piacere facile; egli scrive infatti che «quando uno è abituato ai piaceri, difficilmente sa sopportarne la privazione». Al contrario, l’uomo pertinace è colui che si ostina irragionevolmente a perseverare in un’attività anche se i risultati gli sconsiglierebbero di farlo. Quando uno agisce contro le evidenze contrarie, può sviluppare un attaccamento eccessivo che gli può cagionare sofferenze inutili. Quindi, a patto di non compromettere la propria salute, credo che «bisogna essere disposti a pagare il prezzo che ogni desiderio possiede». Anche Seneca ti avrebbe dato ragione e ti avrebbe sostenuta; egli era convinto – come te – che «gran parte del progres­so consiste nel voler progredire» (Lettera 71, 36).
Un caro saluto,
Alberto


lunedì 24 marzo 2014

Quando la memoria viene a mancare

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Caro professore,
sono fidanzata con un ragazzo da alcuni anni, e ho sempre avuto a che fare con la sua famiglia. Un anno fa suo padre si è ammalato di Alzheimer. Ha soltanto 52 anni e già deve combattere contro questa malattia che inevitabilmente lo divora dentro. In un solo anno è peggiorato moltissimo. A volte entro in casa loro e lui mi sorride, e mi porge la mano per stringere la mia e salutarmi. Io lo guardo, e vedo uno sguardo diverso, commosso, e triste nel profondo. Gli occhi sono cambiati, il fisico è cambiato. E la sua memoria? Svanisce, un po’ alla volta; ogni gesto abitudinario diventa un ostacolo. In quella casa ogni problema è legato alla memoria: i parenti stanno male perché ricordano com’era, e lui sta male perché non riesce a ricordare. Io in tutto questo tempo mi sono fatta tante domande, ma quella a cui non ho mai trovato risposta è: che cosa succede nella sua testa? I medici danno tante spiegazioni, ma parlano di memoria come se fosse un termine medico. Dunque i medici ne parlano e “sanno” cosa sia, i filosofi ne hanno parlato, i cantanti ne parlano continuamente e i poeti con loro. Ma io no, io ne parlo ma non so cos’è la memoria. E vedendo suo padre mi accorgo di dover capire. Quindi mi rivolgo a lei, professore: che cos’è la memoria, in fondo? Io credo che sia come un magazzino in cui risiedono i ricordi; ma quando questo magazzino viene a mancare? Può un uomo vivere senza memoria?
Laura, 4A

Cara Laura,
L’idea che la memoria sia una sorta di “magazzino” in cui ogni uomo preserva i propri ricordi giunge da lontano. S. Agostino, nel decimo capitolo delle “Confessioni”, connota la memoria come una «reggia immensa», una «riserva di immagini e di cose». Scrive Agostino: «Quando io mi trovo là, a mia richiesta si presenta tutto ciò che voglio; certe cose vengono subito, certe altre si fanno cercare più a lungo e tirar fuori come da ripostigli segreti». La memoria tuttavia non deve essere considerata un saldo archivio di documenti o di immagini inalterabili. Non dobbiamo pensare il passato confinato in un abisso ricoperto da una nebbia che di tanto in tanto si assottiglia. Il passato, direbbe Henri Bergson, «ci segue, tutto intero, in ogni istante», è la stoffa della vita, interagisce con il presente e permette ad ogni uomo, che riconosce la propria storia, di comprendere chi è. Non è un caso che il premio Nobel per la medicina Eric Kandel – noto per i suoi studi sulle sinapsi della lumaca marina Aplysia – abbia detto che «io sono quello che sono, perché mi ricordo di quello che sono stato». Là dove, a causa della malattia, la memoria lentamente si dissolve, viene meno anche l’identità, perché l’identità è relazione con il passato e con il futuro. Le persone, normalmente, riprendono dal proprio passato scelte e idee, per confermarle o per metterle in discussione e individuano un percorso nel quale approssimativamente si riconoscono, mentre la vita del malato, non alimentata dal passato e non pungolata dal futuro, perde il proprio sostegno. L’uomo assiste così ad una graduale sparizione di sé. Mi viene in mente il pittore William Utermohlen, colpito dall’Alzheimer. Quando ha scoperto la propria malattia ha iniziato a dipingere degli autoritratti, cercando di segnalare il venir meno della propria identità. Sulle sue tele compaiono figure sempre più essenziali che poco per volta si dissolvono, svaporando nell’indistinto. Questo è stato il suo modo di esprimere ciò che provava e sentiva di sé. La moglie, Patricia Utermohlen, ha detto che «Verso la fine non riusciva nemmeno a riconoscere i propri dipinti ... la cosa più triste». Murata nell’attimo, senza memoria e senza rotta, la vita accoglie ciò che si presenta senza poter dare un senso alle cose. Poiché ogni nostro gesto si nutre di significati che prendiamo dal passato e acquista un senso grazie allo sguardo sul futuro che indica la direzione, vivere un eterno presente è doloroso; infatti, non riconoscendo le relazioni tra le cose si perde il loro senso. Ogni oggetto ordinario diventa nuovo e non si lascia assimilare. Il mondo produce così solo un flusso continuo di immagini dove un’istantanea dilegua sotto la spinta di un’altra, senza durata. E noi sappiamo che nella conservazione e nella continuità di quel «tempo della vita», che come una valanga « ci segue, tutto intero», ogni uomo trova l’orientamento di sé e la bussola per l’esistenza. È terribile vivere senza memoria, per questo il poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa, ne “Il libro dell’inquietudine”, fa pronunciare a Bernardo Soares queste parole: «Sì, quello che sono sarebbe insopportabile se non potessi ricordare quello che sono stato». Poiché nel malato scorre la vita ed è inaccessibile il suo senso, egli, spesso si sente esiliato e piange «come un mendicante il silenzio chiuso di tutte le porte» che la sua coscienza cerca – senza successo – di varcare.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 17 marzo 2014

Donare la stima



Caro professore,
le scrivo perché ho urgente bisogno di aiuto per cercare di far luce su una questione che è maturata in me durante l’estate. Da qualche tempo mi ero resa conto che tra le mie amiche ce n’era in particolare una alla quale tenevo, e tengo tuttora, in modo particolare. Sentivo che questa vicinanza non era dovuta solamente ad un’istintuale simpatia e andando più in profondità ho compreso che ciò che la distingueva dalle altre persone che mi trovavo accanto è che per lei provavo e provo una totale e sincera stima. Allargando lo sguardo mi sono accorta che tra i miei amici un numero molto ristretto gode di questa stima e anche al di fuori della cerchia sono pochissime le persone che stimo profondamente, oltre i miei genitori. Oltretutto alcune di queste persone che avevo preso come punto di riferimento, e quindi di cui avevo molta stima, l’hanno con il tempo persa. Questo lato di me mi fa soffrire perché, proprio nelle persone che mi sono più vicine e che mi potrebbero essere di sostegno nei momenti difficili della mia vita, io non riesco a riporre la mia stima e, di conseguenza, la mia completa fiducia. Allora io mi chiedo: secondo lei, è possibile scegliere di donare a qualcuno la propria stima? E in questo modo, la stima donata può continuare a essere autentica?
La ringrazio per la sua disponibilità,
Letizia, 5B

Cara Letizia,
Il filosofo olandese Baruch Spinoza nell’ “Etica” (1677) scriveva che «la stima è sentire di una persona più del giu­sto, per amore». Forse è anche per questo che «fuori della cerchia» dei famigliari non sono così numerose le persone che godono della nostra stima. Sappiamo che la “stima” nasce come misura, come attribuzione di un valore ad un bene materiale; quando mettiamo in atto questa rilevazione, forniamo una valutazione approssimativa che permette di confrontare un oggetto con un altro. In ogni caso, la stima è un giudizio. Poiché proviene da una decisione, non è mai neutrale, perché rimanda a criteri di valutazione che talvolta avvengono senza neppure precisa consapevolezza, in modo automatico. Possiamo giudicare favorevolmente molte persone, però, in realtà, quelle a cui riconosciamo una certa autorevolezza per la nostra vita sono poche. Alcune amiche, come hai notato, «perdono la [nostra] stima», perché con il tempo manifestano comportamenti e abitudini che si allontanano dai valori che consideriamo irrinunciabili e, in qualche caso, di altre diciamo che non «meritano più la nostra stima». In questo senso, stima e fiducia sono differenti. Mentre siamo disposti a concedere la fiducia anche all’inizio di una relazione affettiva o a persone appena conosciute, la stima necessita di un tempo supplementare e – come dice la parola – di una vera e propria «valutazione». Se la fiducia può pertanto anche essere «incondizionata» o se ci può essere un «credito di fiducia» verso qualcuno, nella stima invece consideriamo il «merito», ossia tributiamo un riconoscimento solo a chi reputiamo degno, per coerenza nei comportamenti, per corrispondenza tra ideali e azioni, per costanza nelle scelte di vita anche nei momenti difficili o per fedeltà alla parola data. In questo senso la stima è qualcosa in più della fiducia, è piuttosto il suo compimento, il suo esito positivo, perché è un dono concesso a seguito di osservazioni e perizie. Tra fiducia e stima avviene qualcosa di analogo al processo di decantazione del vino. Per separarlo da eventuali sedimenti, il vino viene versato in una caraffa e poi si attende che alcuni residui si depositino e il vino si schiarisca. Forse è così anche per la vita: persone investite della nostra speranza vengono osservate nuovamente dopo il filtro del tempo. Il tempo “chiarifica” il vino e filtra le ambivalenze degli uomini. Se la fiducia – come scrive bene la filosofa italiana Michela Marzano (“Avere fiducia”, 2012) – implica «l’assunzione di un rischio», perché siamo disposti a fidarci di qualcuno anche senza inoppugnabili garanzie che quella fiducia sia meritata, la stima non è preventiva, ma deriva dall’idea che il rischio era ben posto, che «l’apertura di credito» si è rivelata una promessa mantenuta. Per questo molti autori dedicano un libro anche ad un maestro o ad un amico. Sentono il bisogno di ringraziare chi ha indicato loro una via, ha permesso loro di vivere una relazione significativa, li ha arricchiti interiormente o li ha resi autonomi e liberi. Non so se si possa «donare la stima», credo che possiamo sempre offrire la nostra fiducia, ma che solo qualche volta tale affidamento si trasformi in stima. Spesso, alcune persone ritenute significative non offrono invece solidi ancoraggi, perché avvertiamo che manca in esse congruenza tra parola e vita, ossia quella corrispondenza che candida ogni persona ad essere considerata un «punto di riferimento». E se accettiamo, con Spinoza, che la stima sia il «sentire di una persona più del giu­sto, per amore», talvolta dobbiamo correggere le nostre aspettative e con molta onestà dobbiamo chiederci se la riduzione della stima nei confronti di alcuni compagni avvenga per «insufficienza di amore» o per necessità di ritornare «nel giusto».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 10 marzo 2014

Tollerare l'intolleranza?

-     La tolleranza   -     La tolleranza       -
 
Caro Professore,
sono rimasto particolarmente colpito dalle riflessioni del filosofo inglese John Locke riguardo al tema della tolleranza. [...] Ammettendo pure di riuscire a rimanere tolleranti in ogni situazione, c’è un caso che mi lascia alquanto perplesso: può un cittadino tollerante, e più in generale un’intera società che si definisca tale, accettare ugualmente chi non riconosce il principio della tolleranza? Di getto mi verrebbe da rispondere: “Certo! Altrimenti perderebbe la propria identità, venendo meno a ciò in cui crede”; d’altra parte, ragionando più a fondo, ritengo che permettendo anche a chi non tollera il prossimo di manifestare e mettere in pratica il proprio ideale, si rischia di diventarne complice, difatti “chi tace acconsente” e di nuovo la propria tolleranza non sarebbe più tale, sapendo che magari ha acconsentito al rifiuto di altri esseri umani. Com’è meglio comportarsi, allora, con chi non è capace di tollerare?
Riccardo, 4E
 
Caro Riccardo,
In una linea ideale che va da Baruch Spinoza, John Locke, fino a Voltaire, il tema della tolleranza è stato un tema cruciale, soprattutto dopo le devastanti guerre di religione avvenute tra Cinquecento e Seicento. Preoccupato per la realizzazione di una convivenza pacifica tra gli uomini, John Locke scriveva che «la tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione, che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi di fronte a una luce così chiara». Ma la tolleranza torna ad essere un tema fondamentale anche per la nostra società, spesso angosciata da intransigenze ed estremismi. La tua riflessione fa riferimento a ciò che in filosofia è stato chiamato il «paradosso della tolleranza». Karl Popper, in “La società aperta e i suoi nemici” (Armando 1996), lo ha tradotto così: «la tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi». Nella storia della filosofia ci sono stati modi diversi di intendere questo valore e ci sono stati autori assai critici proprio nei confronti della tolleranza assoluta. Richard Wolff, Moore Barrington jr. e Herbert Marcuse anni fa hanno scritto un libro dal titolo “Critica della tolleranza, 1965” (Einaudi 1968), per segnalare le ambivalenze di questo concetto. C’è una tolleranza attiva, segno di apertura verso le novità, le differenze di opinioni e usanze di persone e culture; una forma di comprensione dell’altro che è rispetto e apertura mentale, ed è praticata da chi considera ogni uomo con pari dignità e accetta che vi sia una pluralità di visioni del mondo (Weltanschauungen). Ma c’è anche una forma di tolleranza che è profondamente negativa e certamente inopportuna: tollerare che una persona venga discriminata o che non possa godere dei diritti civili, oppure non opporsi alle ingiustizie e agli abusi di potere non è più tolleranza, ma apatia e indifferenza. L’imperturbabilità di fronte al fanatismo o la mancanza di considerazione verso coloro che soffrono sotto la guida di tiranni, potremmo dire con Moore Barrington Jr., «diventa vigliaccheria intellettuale ed evasione». Herbert Marcuse insegna che la tolleranza, pur essendo un valore importantissimo, dipende da obiettivi superiori; non è un valore incondizionato, ma è subordinato al valore primario dell’uguaglianza dei diritti. Anche se il filosofo della scuola di Francoforte ritiene che la tolleranza indiscriminata potrebbe (forse) essere accettata nei «dibattiti innocui» e nelle «conversazioni» – non certo quando vengono messe in discussione la pace, la libertà e persino la felicità –, egli afferma che il fine della tolleranza è la verità («Il telos della tolleranza è la verità»), in quanto è grazie alla diversità e al confronto che una società progredisce, mentre l’intolleranza impedisce la crescita collettiva, fa soffrire persone innocenti e aumenta il numero delle vittime. Ogni società fissa pertanto delle regole di convivenza, che potremmo chiamare le «regole del gioco». Essa ha quindi il dovere di difendersi da coloro che manifestano precise forme di settarismo. Come si può fare allora? Karl Popper diceva che fino a quando le idee intolleranti si possono arginare con argomentazioni razionali, allora non è necessario mettere in atto ulteriori misure repressive. Ma quando gli intolleranti pretendono di «ripudiare ogni argomentazione», allora una società ha il diritto, anche con la forza, di arginare l’intolleranza. Gli estremisti si pongono infatti al di fuori delle regole e delle leggi. Ma ci sono valori imprescindibili o – come dicono le costituzioni – inalienabili, che uno Stato democratico deve sempre tutelare per non tramutarsi nella dittatura del più potente.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 3 marzo 2014

Senza padre

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Caro professore,
ho 17 anni ed è da quasi 8 anni che non vedo mio padre. Come la mia, sono sempre più numerose le famiglie con un solo genitore, il più delle volte senza padre. Personalmente non sento e non ho mai sentito la mancanza di una figura paterna lungo il mio percorso di crescita e formazione di ciò che sono. Tuttavia mi chiedo se crescendo con un solo genitore sarà possibile avere davvero uno sviluppo psicologico adeguato e se questo non causerà una crescita e in particolare un’adolescenza problematica. In questi casi il ragazzo/a diventando poi a sua volta genitore forse non sarà in grado di educare i suoi figli in maniera adeguata dato che egli stesso non ha mai ricevuto un’educazione adatta? Magari sarà inevitabile che si sentano incompleti ed inadeguati per tutta la vita, magari non si sentiranno, ma saranno tali. Una famiglia con una madre single causa tutto ciò ed ha davvero meno da offrire?
Reicela, 3F
 
Cara Reicela,
Lo psicoanalista italiano Massimo Recalcati ha dedicato alcuni studi alla figura del padre (“Cosa resta del padre”, 2011; “Il complesso di Telemaco”, 2013). Nell’ultimo libro scrive: «La clinica psicoanalitica mostra come l'assenza empirica, di fatto, del padre non sia mai in se stessa un trauma. La sua carenza diviene traumatica solo se implica una carenza simbolica». Facendo riferimento allo psicoanalista francese Jacques Lacan (1901-1981), egli sottolinea che «Non è l'assenza del padre a essere traumatica in se stessa; dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla parola della madre». Egli prende come esempio Penelope, la moglie di Ulisse, che a causa dell’assenza del marito è costretta a crescere da sola il figlio Telemaco, attendendo per vent’anni il ritorno dell’amato. Recalcati scrive: «Come Penelope trasmette il Nome del Padre? Ella trasmette a Telemaco che l'assenza di suo padre non è un capriccio, non è il frutto di un rifiuto della sua funzione paterna, non è il risultato di un egoismo cinico. Con la sua attesa di Ulisse, Penelope trasmette a Telemaco che l'assenza del padre è gravida di senso umano. La sua veglia tiene vivo il Nome del Padre. Significando l'assenza di Ulisse come l’“assenza di una presenza” ella trasmette a Telemaco tutto il senso della sua eredità di figlio». Penelope non definisce l’assenza come «abbandono irresponsabile», ma dice che Ulisse forse si è «perso nel mare». Non parla pertanto di disinteresse, di rifiuto della paternità, non evidenzia un distacco incosciente e immaturo da una responsabilità, non evoca l’abbandono per indifferenza né per mancanza di amore, non segnala un interesse narcisistico anteposto alla vita affettiva e relazionale. Certo, non sempre l’assenza è «gravida di senso umano» come nel mito, a volte l’assenza è semplice vuoto, incomprensibile lontananza. Poiché siamo consapevoli di essere frutto del nostro passato, allora deduciamo facilmente che se nel passato ci sono state delle ferite quelle ferite condizioneranno il nostro futuro. In parte è vero, ma non dobbiamo confondere la parte con il tutto. Il tutto è rappresentato dal passato e dall’educazione, ma soprattutto dall’immagine del futuro, dalla cultura, dalle persone significative che incontriamo, dal desiderio di realizzare ciò in cui crediamo, dall’eventuale immagine di coppia e di famiglia che vogliamo costruire. I genitori hanno certo molte responsabilità, ma non possiamo imputare loro tutte le nostre inadeguatezze, perché ad un certo punto siamo noi a compiere le scelte che ci determinano e anche la mancanza non è mai così potente come il desiderio di realizzare una vita buona. Molti vivono con grandi carenze: orfani a causa della guerra, della povertà, della malattia, del naufragio delle relazioni. Beethoven era sordo, ma ha creato la nona sinfonia e non ha scritto “Historia Calamitatum Mearum (Storia delle mie disgrazie)”; la sua privazione non aveva dunque «meno da offrire». Ci sono culture in cui per mancanza di esempi e per analfabetismo emotivo i padri non seguono le mogli o le compagne quando emigrano in cerca di lavoro, non sono sufficientemente maturi per comprendere che i figli riscrivono il senso della biografia individuale e le forniscono un’insospettata energia vitale. In questo momento dici di non sentire la mancanza, ma è possibile che questa assenza prima o poi si faccia sentire. Allora potrai decidere tu di incontrare o meno tuo padre e offrirgli l’occasione di farsi ri-conoscere, anche nella lontananza. Perché devi sapere una cosa sui genitori: anche loro sono incompleti e inadeguati, hanno le loro ferite, le loro paure e possono arenarsi nelle difficoltà. La settimana scorsa Eduardo De Falco (43 anni) un panettiere di Castelnuovo (NA) si è tolto la vita disperato per un debito. Aveva tre figli. Pensi che non amasse sopra ogni cosa i suoi figli? Ma un terrore insinuatosi nella mente gli ha sbriciolato la fiducia nella vita; non voleva certo danneggiare la propria famiglia, ma un incubo più grande gli ha oscurato il futuro. Ci sono certo padri immaturi, ma tutti sono padri inesperti e imperfetti, perché nessuno vive «prima» degli altri, ma solo «con» gli altri. Otto anni di lontananza sono ancora meno dei venti di Penelope: c’è sempre tempo per riavviare la relazione. L’unica cosa che si può sempre rinviare o modificare è il giudizio definitivo.
Un caro saluto,
Alberto