Caro professore,
volevo parlarle di questo periodo, che è il classico
momento adolescenziale che tutti vorrebbero dimenticare, perché credo che
sfogarsi con un foglio sia molto più liberatorio che farlo con una persona... È
come se tutte le ansie, le responsabilità e le paure mi stessero schiacciando e
non mi sento pronta ad affrontarle... credo che la cosa più difficile sia dover
scegliere, per qualsiasi cosa vorrei che qualcun altro lo facesse per me.
Qualche settimana fa ho dovuto prendere una decisione, e con questa mi sento di
aver deluso un po’ tutti. La cosa che più mi fa stare male è essermi “divisa”
dal mio migliore amico; può sembrare banale, ma mi manca molto e quello che mi
preoccupa è che io non manco a lui. In parte ero preparata a questa reazione,
ma speravo che avremmo provato a continuare la nostra amicizia anche non
vendendoci più tutti i giorni. Io gli scrivo con qualsiasi scusa solo per
sentirlo e sapere come sta, ma da parte sua non c’è nessun interesse... forse
mi ero illusa, ma mi sento inutile. Nessuno si accorge di me e a nessuno
importa come sto, i viaggi in treno, poi, non aiutano, mi fanno pensare, e a
volte credo che il problema sia io, forse non piaccio alle persone. Ed è in
questi momenti che mi odio, odio il mio carattere, vorrei essere più impulsiva
e sicura, ma non ce la faccio, mi sento sempre sottomessa alle altre persone,
mi sento indesiderata e costantemente giudicata. Potrei continuare ad annoiarla
con le mie paranoie, ma mi sento egoista e superficiale a parlare di queste
banalità, quando ci sono persone che soffrono per motivi molto più validi.
Quindi, la domanda che le pongo, tra tutte quelle che le vorrei fare è: sarà
sempre così “difficile” vivere? O quando si cresce, cambia? Insomma, com’è
l’essere adulti? È questo, forse, quello che mi spaventa.Alice, IVA
Cara Alice,
Fabio Volo ne “Il tempo che
vorrei” ha inventato un personaggio, Lorenzo, che ha costruito il proprio
rapporto positivo con la lettura il giorno in cui un amico ha scelto un libro per
lui. In certi casi una “mano” che seleziona nella babele della vita può
facilitare un incontro, aprire nuove direzioni allo sguardo ordinario e
all’ideazione rituale. Ma nelle relazioni interpersonali siamo noi a scegliere
e ogni scelta può anche generare sconforto. Si deludono le persone quando non
si corrisponde alle loro proiezioni sulla nostra vita. Tuttavia, non sempre
possiamo agire secondo le aspettative, perché non siamo attori che recitano
quotidianamente uno stesso copione teatrale (come avviene ad esempio dal 1952
al New Ambassadors Theatre di Londra per la rappresentazione del grande
classico di Agatha Christie “Trappola per topi”, “The Mousetrap”),
e non viviamo per soddisfare le attese o per conformarci a regole che altri
hanno stabilito per noi. Cercando di essere graditi a tutti, dimentichiamo il
nostro compito più impegnativo: vivere creando la nostra specifica
individualità. Soren Kierkegaard diceva che «la scelta decide circa il
contenuto della personalità» (“Aut-Aut”), pertanto nelle scelte
deliberiamo qualcosa di molto importante: stabiliamo chi vogliamo diventare.
Così, talvolta, i nostri comportamenti possono apparire inopportuni, ma
diventano indispensabili per non diventare prigionieri di desideri che non ci
appartengono. Certo, poiché viviamo di relazioni, scontentare qualcuno
significa anche modificare il rapporto e ogni assestamento relazionale produce
sofferenza o genera un’ansia eccessiva
che può impedire il cambiamento. Preferiremmo non essere giudicati e vedere
famigliari e compagni come osservatori imparziali che accettano i nostri
cambiamenti. Ma per essere autentici, ci possiamo concedere anche il privilegio
di deludere qualcuno. Ricordo che lo psichiatra francese André
Christophe diceva che gli uomini si devono concedere qualche licenza. Ne elencava cinque:
«il diritto di sbagliarsi, il diritto di fermarsi, il diritto di cambiare
idea, il diritto di deludere, il diritto di arrivare a un risultato imperfetto».
Abbiamo dunque anche il diritto di deludere. Non perché ci prendiamo gioco di
una persona, certo, ma perché nel tentativo di dare forma alla nostra esistenza
selezioniamo ciò che è coerente con i nostri ideali e ciò che non lo è. Il
senso di colpa è il prezzo che si paga quando si prende una decisione in
conformità al proprio senso morale e alla propria sensibilità. Credo che tu ti
senta in colpa almeno per due motivi: per «senso di responsabilità» e per aver
originato «una separazione». Nel primo caso considera che anche i genitori si
sentono in colpa quando si ammala un figlio e si chiedono se potevano stare più
attenti o fare di più. Altrettanto accade quando si lavora in gruppo: a volte
ci si sente responsabili per sofferenze di cui non si è causa diretta. E poi ti
senti in colpa «per la separazione». Ma in ogni cultura, tuttavia, il momento
del distacco dalla famiglia o dalla comunità è segno di maturazione, perché se
manca la separazione non si genera l’autonomia. Fino ad ora hai considerato
solo la delusione degli altri, ma è bene che tu consideri anche la tua, in
fondo anche tu provi sconforto per non vedere realizzate le tue speranze.
Chiedi se quando si cresce questo senso di sconfitta cambierà. In parte, perché
gli adulti hanno già passato al setaccio del tempo le amicizie, ma anch’essi
soffrono per le scelte che devono compiere: ad esempio: a chi essere fedeli? Ad
una tradizione religiosa o politica, al proprio passato o ad un nuova
valutazione della vita? Si può rispondere in molti modi, ma se uno rimane
affezionato alla ricerca della verità e alla propria autenticità metabolizzerà
senza tanto rammarico i propri cambiamenti come costituenti necessari di una
buona vita.Un caro saluto,
Alberto
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