Caro professore,
Mi sono trovato a riflettere sugli esempi positivi che
noi ragazzi possiamo avere al giorno d'oggi. Mi spiego, pare che noi giovani
siamo rimasti senza ideali, senza speranze, e con la voglia di cambiare le
cose, o quanto meno tentare, che va lentamente scemando. Insomma, siamo rimasti
a corto di persone cui ispirarci, o quantomeno di nuove figure da emulare.
Ovviamente è impossibile dimenticare grandi personaggi come Mandela, King,
Gandhi, Guevara per il loro impegno e per le loro conquiste, ma purtroppo pare
che episodi come "Ferguson" [Darren Wilson, il poliziotto che ha
sparato a Michael Brown], che parevano ormai pallidi residui sulle divise delle
forze dell'ordine statunitensi, siano destinati a ripresentarsi. Siamo rimasti
orfani di una o più figure carismatiche, o meglio ispirate, e oramai la
priorità fondamentale è diventata il "divertirsi", lo sballarsi,
chiudere gli occhi su questo mondo destinato all'annichilimento e vivere oziosi
"nell'isola che non c'è". Siamo ormai privi di quegli spunti e di
quelle rivoluzioni in grado di renderci uomini e di ricoprire quelle cariche
etico/politiche che non sono un nostro diritto in quanto esseri umani, ma sono
un ancestrale dovere che grava sulle nostre spalle. Ora come ora siamo troppo
vulnerabili anche ai dispotismi, non abbiamo più nulla in cui credere e
qualsiasi potenziale "Hitler" non avrebbe vita difficile a riportare
alla luce una nuova realtà autarchica. Pertanto professore la mia domanda è la
seguente: è in grado la nostra terra di partorire altre "menti
illuminate", è in grado di generare un fermento negli animi delle nuove
generazioni, rendendoci coscienti delle responsabilità storiche che abbiamo
(praticamente rifondare un’economia globale in sfacelo), oppure giunti a questo
punto è praticamente impossibile? [...]
Filippo, IV B
Caro Filippo,
L’idea che ci troviamo a vivere
un «tempo di povertà», un «dürftige Zeit», come direbbero i
romantici, è stata frequente nella storia. È un’idea cara ai catastrofisti di
ogni tempo che segnalano il procedere della storia da un’ipotetica età dell’oro
verso un declino inarrestabile. C’è chi, accettando le analisi sulla “società
liquida” prodotte da Zygmunt Bauman, ritiene che il mondo postmoderno non solo
stemperi i dogmatismi, ma dissolva ogni certezza nel relativismo e c’è chi
all’opposto considera che l’incertezza del nostro tempo sia prodotta dagli
effetti di un’ossatura solidamente determinata dalle leggi del capitalismo. La
mancanza di speranza sembrerebbe inevitabile, perché ogni visione profetica
sarebbe impossibilitata ad emergere e ad illuminare oltre un certo tempo la
società o perché fagocitata dalla struttura instabile su cui si fonda o perché
soffocata da un’inamovibile base economica. Dici che avremmo bisogno di figure
carismatiche, ma lo storico britannico Eric J. Hobsbawm ne “Il secolo breve”
ci ha tuttavia insegnato che nel secolo scorso molte figure carismatiche «hanno
arringato le folle e da queste sono state idolatrate» e che non sempre il
carisma si coniuga con il bene. E se gettiamo uno sguardo retrospettivo sul
Novecento non ci conforta neppure sapere che per diciannove anni non è stato
consegnato il Premio Nobel per la pace e che nel 1948 la motivazione esplicita
era che «non c'era nessun candidato idoneo vivente». Potremmo allora
pensare di vivere in un inferno e che le speranze saranno sempre infrante.
Trovo però molto importante ciò che Italo Calvino fa pronunciare a Marco Polo
nelle “Città invisibili”. Scrive Calvino: «L'inferno dei viventi non
è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno cha
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non
soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne
parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in
mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Penso
che sia in chiave laica sia in chiave religiosa abbiamo bisogno di buoni
testimoni ordinari e non tanto di figure straordinarie. Il filosofo Remo Bodei
scrive infatti che «oltre che di maîtres à penser, ci sia oggi bisogno
di maîtres d'existence» (“Immaginare altre vite. Realtà, progetti,
desideri”, 2013). E anche il priore della comunità Monastica di Bose, Enzo
Bianchi, ritiene che al cristianesimo servano «testimoni non testimonial»
(“Per un’etica condivisa”, 2009). E allora bisogna saper guardare con
attenzione instancabile a persone e a comportamenti che, come scrive Calvino,
meritano di essere imitati e riprodotti. Ci sono tantissimi uomini ordinari –
meravigliosi maîtres d'existence – che selezionano il bene e cercano di
“farlo durare, e dargli spazio”. Le “menti illuminate” ci sono,
basta che uno sappia scegliere ciò che vuole salvare e come vuole vivere. E
anche a livello mondiale ci sono testimoni. Quest’anno, infatti, il Nobel per
la Pace è stato assegnato. All’indiano Kailash Satyarthi e alla giovane
pakistana Malala Yousafzai, “per la loro lotta contro la soppressione dei
bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all'istruzione”.
La speranza individuale è sempre alimentata da relazioni di cura. Queste relazioni sono, secondo me, gli "esempi positivi" da preservare.
Un caro saluto,
Alberto
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