Caro professore,
Ultimamente non riesco a controllare la mia rabbia e spesso con gli amici mi capita di alzare le mani e con i genitori mi capita di rispondere male e di non rispettarli. Ecco, vorrei sapere com’è possibile che non riesca a controllare le mie emozioni.
Andrea, II C
Caro Andrea,
Lo scrittore
italiano Claudio Magris in “Alfabeti” (2008) ricorda che «alle
origini e alle radici dell'occidente c'è l'ira, inscindibile dall'aurora della
poesia che fonda la nostra civiltà: «Cantami, o diva, del Pelide Achille l'ira
funesta», dice il primo verso dell'Iliade». Così, apparentemente, sei in
buona compagnia, perché anche Achille, il furioso campione degli Achei,
faticava a contenere la propria rabbia. Una delle storie più antiche della
nostra civiltà, in fondo, ci racconta la potenza (devastatrice) di questa
emozione. Il figlio del re Peleo (pelide) e della dea Teti, il «tremendissimo
Achille» a cui le parole spesso facevano «di furore infiammar l'alma
(l’anima), non era certo un uomo – o meglio un semidio – moderato e stentava a
frenare i propri impulsi. L’eroe greco, durante la guerra di Troia, ha più
volte “alzato le mani” e la spada, ed è stato colui che ha ucciso più
uomini. Una volta, la sua rabbia urlata da un fosso ha terrorizzato così tanto
i guerrieri nemici che dodici soldati Teucri si sono uccisi involontariamente
con le loro armi nella confusione della fuga («Lì stando, un grido/ mise, e
d'un altro da lontan gli fece/eco Minerva, ed un terror ne' Teucri immenso
suscitò. [...]Tre volte Achille/ dalla fossa gridò: tre volte i Teucri/ e i
collegati sgominarsi, e dodici/de' più prestanti fra i riversi cocchi/ trafitti
vi perir dal proprio ferro»). Il rapimento di Elena, regina di Lacedemone
(Sparta) da parte di Paride, figlio di Priamo re di Troia, sarà stata una buona
ragione per far scoppiare una guerra tra Achei e Troiani; in fondo, il motivo
era valido: Elena era la donna più bella del mondo. Ma, come sai, le cose sono
andate un po’ per le lunghe e solo dopo dieci anni di guerra gli Achei sono
riusciti a vincere. Purtroppo, anche Achille morì poi ucciso da Paride che
voleva vendicare la morte del proprio fratello Ettore. Conosci certamente la
storia della freccia e del tallone. Anche se l’ira è meravigliosa nella poesia
e permette di creare storie memorabili, nella vita procura meno piaceri e
spesso genera conseguenze negative. Non solo avvia effetti imprevedibili e
smisurati (anni di guerra) e smanie di vendetta (sentimenti di rivalsa), ma
causa sciagure anche ai soggetti che la assecondano e che non riescono più a
domarla. Robert A.F. Thurman, un’autorità del buddhismo tibetano negli Stati
Uniti, nel libro intitolato “Ira”, (Raffaello Cortina editore, 2006)
scrive scherzosamente «Sono adirato con l’ira – la odio». Ma poi
sottolinea che per arginarla non può essere arrabbiato, perché se si lascia
impossessare da tale emozione dissiperà inutilmente le proprie energie. Odiare
la propria rabbia, infatti, fa scaturire altra rabbia. Anche tu soffri,
dispiaciuto per le intemperanze con gli amici e con i genitori. Tuttavia,
un’idea non acquista maggior forza se battiamo un pugno sul tavolo, se colpiamo
un amico o delegittimano il nostro interlocutore, ma solo se è sostenuta da
buone argomentazioni. E allora, cosa dobbiamo fare? Lasciarci «impossessare» o «rinunciare» all’ira? In fondo, a
volte abbiamo bisogno di arrabbiarci per ribellarci all’oppressione o alle
aggressioni. Ma a causa delle conseguenze negative dobbiamo forse imparare a
rimuoverla dalla nostra esistenza? Diventare perfetti, calmi e sempre discreti?
Seneca si era posto questo interrogativo in un libriccino intitolato proprio
“De ira”. Il fratello maggiore, Novato, gli aveva chiesto qualche consiglio per
placare il proprio furore. Seneca ricorda che alcuni saggi avevano definito
l’ira «"un momento di pazzia"»; infatti, come la pazzia essa «è
incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti
sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed
alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a
distinguere il giusto ed il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che
si frantumano sopra ciò che hanno travolto». L’ira produce macerie. Ma, se
sfascia l’oggetto su cui si scatena, rovina (ossia “frantuma”) anche il
soggetto che rimane incapace di liberarsene. Qualcuno aveva obiettato a Seneca
che un’anima senza ira era fiacca. E Seneca aveva risposto: «È vero, se non
dispone di nulla di più valido». E cosa abbiamo di più valido? La ragione.
Che non ci chiede di essere codardi (passivi), ma neppure irosi (aggressivi).
Ci chiede di essere coraggiosi e pazienti (oggi si dice assertivi). Seneca
consigliava di “prendere tempo”, di “non essere sospettosi”, di “essere
longanimi”, ossia saper comprendere e tollerare, di “essere pazienti”, e
soprattutto di non adirarsi con gli esseri irragionevoli. Diceva che «il
miglior rimedio dell'ira è il saper rinviare». A volte ci adiriamo perché
non abbiamo compreso bene o perché riteniamo che alcune critiche siano così
destabilizzanti da non poterle sopportare. Ma ad una nuova valutazione della
ragione capiamo che le persone forti non cadono facilmente nelle trappole
dell’ira. Usano l’energia per costruire se stessi e non per distruggere gli
altri; per affermare ciò in cui credono perché sanno che le reazioni non
dipendono tanto dai fatti che accadono, ma dalle nostre scelte. Ed è su queste
che possiamo agire. Magari la nostra vita non diventerà epica, ma sarà
certamente buona.Un caro saluto,
Alberto
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