Caro professore,
In un mondo già circondato dalla violenza gli uomini
hanno inventato un ulteriore modo per ferire il prossimo: il linguaggio. Come è
possibile che le parole, entità immateriali, possano provocare ferite anche
molto profonde nell’anima di una persona, anch’essa priva di materia?Federico, IV A
Caro Federico,
Quando diciamo che
la parola può essere tagliente, pensiamo ad essa non come ad un semplice “flatus
vocis”, una grossolana emissione di suoni, ma come ad uno strumento per
affilare, ossia dividere, incidere, creare. E ciò che viene impiegato per tagliare può
certo essere utilizzato per ferire, ma serve principalmente per “dare forma”.
Infatti, anche ciò che è “immateriale” è in grado di avviare o di produrre
effetti. Già Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica, aveva
scritto che il nostro corpo è «l'unico a non esser mero corpo fisico
[Körper], ma proprio corpo vivente [Leib]» (Meditazioni cartesiane,
Bompiani 1960). Dire che non siamo corpo fisico significa dire che non stiamo
al mondo come oggetti tra gli oggetti, ma che plasmiamo le nostre credenze
stabilendo continuamente connessioni. Il corpo diventa oggetto [Körper]
quando è cadavere: solo lì esaurisce i nessi con ciò che lo circonda e diventa
cosa tra le cose. Diversamente, l’uomo è “corpo vivente [Leib]” e non fa
altro che generare legami di senso, ossia relazioni prodotte dal linguaggio. Le
parole danno pertanto forma alla vita individuale e fanno male perché se
ogni esperienza è organizzata consapevolmente proprio grazie ad esse, significa
che esse plasmano il vissuto. Pensa alla sofferenza che si prova quando non è
possibile descrivere una sensazione. La poetessa Antonia Pozzi, ne “La porta
che si chiude” racconta il dolore per ciò che non riesce ad affiorare: «Oh,
le parole prigioniere / che battono battono / furiosamente / alla porta
dell'anima / e la porta dell'anima / che a palmo a palmo / spietatamente / si
chiude!». Siamo ininterrottamente
in rapporto con la parola e la nostra vita non sarebbe tale se non fosse
misurata con esattezza dalle descrizioni operate dal linguaggio. La parola ci
permette di sondare le profondità dell’animo, di recuperare frammenti del
passato, di lenire un dolore, di svelare le nostre inclinazioni, ma soprattutto
di generare e di comprendere le nostre esperienze. Una cosa è agire, altro è descrivere la propria
azione o intervenire per rettificare l’interpretazione di
essa. Un’intelligenza senza parole sarebbe limitata, non potrebbe andare al di
là del raggio di azione degli oggetti che le si presentano davanti. Così ci
sono parole che uccidono, altre che leniscono il dolore; parole che rendono
problematica l’esistenza, altre che liberano dai grovigli invisibili che
accompagnano a volte le emozioni. E parole che ci affrancano dal vuoto
dell’esistenza o dal senso di noia e ci consentono di emergere dai momenti di
crisi. La produzione delle parole apre ad una particolare dimensione del tempo,
quella che Henri Bergson definiva del “tempo interiore”. Senza la parola non
avremmo passato, non avremmo echi della nostra storia, ma non avremmo neppure
la speranza, ossia quel tenue filo di immagini e ideazioni che ci lega al
futuro. Vivremmo in un eterno presente fatto di oggetti innominabili. Le
parole, però, non solo rendono possibili le esperienze nel tempo, ma dilatano
anche il tempo vissuto. La creazione (o ricreazione) dell’esperienza può essere
lunga o breve, complessa o superficiale in base ai tasselli che abbiamo a disposizione
per costruirla. Come un pittore realizza
effetti differenti se ha a disposizione 12 o 48 pastelli, così più è ampio il vocabolario a disposizione più è accurata la
descrizione del mondo. È il sapiente uso delle gradazioni (linguistiche)
a comporre la nostra esperienza: sia interiore sia esteriore. Ciò che
percepiamo viene infatti tradotto in parole e in base a queste entra in
relazione con i nostri stati d’animo e produce emozioni e sentimenti. Le parole
fanno così durare le cose e ne stabiliscono l’importanza. Se raccontiamo un
evento con poche frasi allora quell’esperienza è limitata, ma se troviamo le
parole per narrarlo dentro una storia più articolata o in un libro,
allora quell’esperienza si accresce e dilata il tempo. Anche la sofferenze più
profonde, quelle prodotte dalla violenza che ha negato la dignità agli uomini
nei vari campi di tortura, hanno avuto (e hanno ancora) bisogno
dell’attenzione della parola o di milioni di parole scritte nei libri. Se manca
l’elaborazione dentro un codice espressivo, il vissuto naufraga e lentamente si
dissolve fino a sparire definitivamente. Questo nuovo tempo che si genera in
noi dà origine alla nostra vita interiore, sostanza della nostra vita
autentica. Quando Marcel Proust scrive la Recherche non ci racconta solo
in modo prodigioso e raffinato il passato, ma vive quell’esperienza
continuamente accresciuta e prolungata. Quelle parole permangono oltre la morte
dell’autore e il loro riverbero fa riemergere una vita che incanta e invita a
produrre nuove idee e immagini. Quando incontriamo qualcuno, pertanto, non
incontriamo solo il suo corpo, ma incontriamo la sua storia, la sua vita. Le
sue parole. Allora non è più una questione di immaterialità dell’anima,
ma di materialità (ossia consistenza) della parola. Un caro saluto,
Alberto
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