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Cor-rispondenze

lunedì 6 aprile 2015

Parole taglienti


 
Caro professore,
In un mondo già circondato dalla violenza gli uomini hanno inventato un ulteriore modo per ferire il prossimo: il linguaggio. Come è possibile che le parole, entità immateriali, possano provocare ferite anche molto profonde nell’anima di una persona, anch’essa priva di materia?
Federico, IV A

Caro Federico,
Quando diciamo che la parola può essere tagliente, pensiamo ad essa non come ad un semplice “flatus vocis”, una grossolana emissione di suoni, ma come ad uno strumento per affilare, ossia dividere, incidere, creare. E ciò che viene impiegato per tagliare può certo essere utilizzato per ferire, ma serve principalmente per “dare forma”. Infatti, anche ciò che è “immateriale” è in grado di avviare o di produrre effetti. Già Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica, aveva scritto che il nostro corpo è «l'unico a non esser mero corpo fisico [Körper], ma proprio corpo vivente [Leib]» (Meditazioni cartesiane, Bompiani 1960). Dire che non siamo corpo fisico significa dire che non stiamo al mondo come oggetti tra gli oggetti, ma che plasmiamo le nostre credenze stabilendo continuamente connessioni. Il corpo diventa oggetto [Körper] quando è cadavere: solo lì esaurisce i nessi con ciò che lo circonda e diventa cosa tra le cose. Diversamente, l’uomo è “corpo vivente [Leib]” e non fa altro che generare legami di senso, ossia relazioni prodotte dal linguaggio. Le parole danno pertanto forma alla vita individuale e fanno male perché se ogni esperienza è organizzata consapevolmente proprio grazie ad esse, significa che esse plasmano il vissuto. Pensa alla sofferenza che si prova quando non è possibile descrivere una sensazione. La poetessa Antonia Pozzi, ne “La porta che si chiude” racconta il dolore per ciò che non riesce ad affiorare: «Oh, le parole prigioniere / che battono battono / furiosamente / alla porta dell'anima / e la porta dell'anima / che a palmo a palmo / spietatamente / si chiude!». Siamo ininterrottamente in rapporto con la parola e la nostra vita non sarebbe tale se non fosse misurata con esattezza dalle descrizioni operate dal linguaggio. La parola ci permette di sondare le profondità dell’animo, di recuperare frammenti del passato, di lenire un dolore, di svelare le nostre inclinazioni, ma soprattutto di generare e di comprendere le nostre esperienze. Una cosa è agire, altro è descrivere la propria azione o intervenire per rettificare l’interpretazione di essa. Un’intelligenza senza parole sarebbe limitata, non potrebbe andare al di là del raggio di azione degli oggetti che le si presentano davanti. Così ci sono parole che uccidono, altre che leniscono il dolore; parole che rendono problematica l’esistenza, altre che liberano dai grovigli invisibili che accompagnano a volte le emozioni. E parole che ci affrancano dal vuoto dell’esistenza o dal senso di noia e ci consentono di emergere dai momenti di crisi. La produzione delle parole apre ad una particolare dimensione del tempo, quella che Henri Bergson definiva del “tempo interiore”. Senza la parola non avremmo passato, non avremmo echi della nostra storia, ma non avremmo neppure la speranza, ossia quel tenue filo di immagini e ideazioni che ci lega al futuro. Vivremmo in un eterno presente fatto di oggetti innominabili. Le parole, però, non solo rendono possibili le esperienze nel tempo, ma dilatano anche il tempo vissuto. La creazione (o ricreazione) dell’esperienza può essere lunga o breve, complessa o superficiale in base ai tasselli che abbiamo a disposizione per costruirla. Come un pittore realizza effetti differenti se ha a disposizione 12 o 48 pastelli, così più è ampio il vocabolario a disposizione più è accurata la descrizione del mondo. È il sapiente uso delle gradazioni (linguistiche) a comporre la nostra esperienza: sia interiore sia esteriore. Ciò che percepiamo viene infatti tradotto in parole e in base a queste entra in relazione con i nostri stati d’animo e produce emozioni e sentimenti. Le parole fanno così durare le cose e ne stabiliscono l’importanza. Se raccontiamo un evento con poche frasi allora quell’esperienza è limitata, ma se troviamo le parole per narrarlo dentro una storia più articolata o in un libro, allora quell’esperienza si accresce e dilata il tempo. Anche la sofferenze più profonde, quelle prodotte dalla violenza che ha negato la dignità agli uomini nei vari campi di tortura, hanno avuto (e hanno ancora) bisogno dell’attenzione della parola o di milioni di parole scritte nei libri. Se manca l’elaborazione dentro un codice espressivo, il vissuto naufraga e lentamente si dissolve fino a sparire definitivamente. Questo nuovo tempo che si genera in noi dà origine alla nostra vita interiore, sostanza della nostra vita autentica. Quando Marcel Proust scrive la Recherche non ci racconta solo in modo prodigioso e raffinato il passato, ma vive quell’esperienza continuamente accresciuta e prolungata. Quelle parole permangono oltre la morte dell’autore e il loro riverbero fa riemergere una vita che incanta e invita a produrre nuove idee e immagini. Quando incontriamo qualcuno, pertanto, non incontriamo solo il suo corpo, ma incontriamo la sua storia, la sua vita. Le sue parole. Allora non è più una questione di immaterialità dell’anima, ma di materialità (ossia consistenza) della parola.  
Un caro saluto,
Alberto

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