Caro professore,
Fin da piccolo mi hanno insegnato che nella vita vince
sempre il “bene”, le persone leali ed oneste, ma crescendo mi sono accorto che
non è quasi mai così: alla fine la spunta chi fa il furbo, chi prova a fare un
cosa nel modo più facile, ma anche più scorretto. Da chi copia nei compiti in
classe a chi ruba i soldi ai più poveri, in un sistema chiamato democrazia, ma
che di democratico ha solo il nome. Poi sono ancora cresciuto e mi sono accorto
di una cosa ancora più vergognosa e allo stesso tempo tragica: a vincere non è
né il bene né il male, ma chi impugna per primo la pistola. Perché nella vita
vince sempre chi è scorretto e perché il “bene” per avere la meglio sul “male”
deve comportarsi come fa il “male”? Perché i genitori ci insegnano a stare
dalla parte che tanto avrà la peggio, insegnandoci umiltà, lealtà, onestà,
altruismo? Perché basta premere un grilletto per potersi imporre?Fabrizio, IIID
Caro Fabrizio,
Per fortuna, non ovunque basta
premere un grilletto per potersi imporre. Forse, come scriveva Freud nel “Disagio
della civiltà”, l’uomo civile, che riducendo le sue libertà pulsionali ha
creato la società, avrà anche “barattato un po’ di felicità” per vivere in
sicurezza, ma il fatto che non viviamo in una giungla dove prevale la forza
bruta è dovuto agli strumenti legislativi della democrazia che, per quanto
manchevoli, si sforzano di tutelare i diritti di ciascuno. È stato un percorso
lungo per l’Occidente, dalla “Magna Charta libertatum” alle più recenti
costituzioni. Certo è innegabile che l’Italia soffra di una “questione morale”,
quella che la filosofa Roberta de Monticelli definiva con amara ironia come il
“Male nostrum”: privilegi, scorrettezze, corruzioni, impunità, disonestà
e molteplici violazioni delle norme elementari della convivenza civile. Ma
allora questo significa che i genitori scambiano la realtà con
un’idealizzazione, visto che i valori che raccomandano o dicono di favorire non
sono vincenti nell’agire collettivo? Hai ragione, se i genitori fanno di tutto
per dare cose buone ai loro figli, perché dovrebbero fornire loro strumenti
inadeguati e veicolare valori perdenti? Non sarebbe meglio che li imbeccassero
con l’astuzia, la malizia o con le virtù di un buon cortigiano, utili arnesi
per competere efficacemente e riportare successo? Persino Platone ci ha messo
in guardia dai comportamenti degli uomini e ci ha fatto riflettere sulle loro
ambivalenze. Nella “Repubblica” afferma che se un uomo possedesse il
mitico anello di Gige, quello che rende invisibili, non si asterrebbe dal
compiere azioni malvagie. Scrive Platone: «Ebbene, puoi crederlo, non si
troverà nessuno di così forte tempra da rimanere fedele alla giustizia, tanto
da astenersi dal mettere le mani sui beni altrui, una volta che gli sia data la
possibilità, per esempio, di arraffare tranquillamente quel che vuole al
mercato, di entrare indisturbato nelle case e prendersi le donne che vuole, di
uccidere, di liberare chi vuole dalla prigione, e di fare mille altre cose come
un dio tra gli uomini» (“Repubblica”, 360 B-C). Come si fa dunque a
resistere alla tentazione dell’ingiustizia e alla contaminazione del male,
visto che è ovvio che non prevale sempre il bene? Il fatto che il bene non
prevalga “sempre” o che certi valori siano “fuori moda”, non significa che essi
siano stati definitivamente sbaragliati, polverizzati dalla contemporaneità.
Oggi forse non riusciamo neppure più a comprendere la frase di Democrito «Colui
che commette l'ingiustizia è più infelice di chi la subisce», (frammento B45),
perché oggi chi commette ingiustizia è spesso assai felice e guarda il prossimo
con senso di superiorità o di biasimo. Fatichiamo pertanto anche a capire
Socrate che nel “Gorgia” di Platone – discutendo con Polo – afferma che
«il male più grande che possa capitare, è commettere ingiustizia. [...] E
incalzato dal suo interlocutore che gli ribatte: «Allora tu
preferiresti subire ingiustizia piuttosto che commetterla?», egli
risponde: «Non vorrei né subirla né commetterla, ma se fossi
costretto a scegliere fra le due, preferirei subire ingiustizia piuttosto che
commetterla» (“Gorgia”, 469b-474b). Polo ricorda a Socrate che molti
uomini ingiusti di successo vengono invece ammirati, come il re di Macedonia
Archelao I, figlio di Perdicca e di una schiava, che uccise a tradimento i
propri parenti per impadronirsi del trono (471a-d). Socrate focalizza allora l’attenzione
su un doppio significato della parola bene. C’è chi lo assimila al successo ad
ogni costo e alla reputazione (che, come sappiamo, non sono sotto il nostro
controllo né dipendono da virtù autentiche o dal lavoro personale) e chi lo
identifica con un certo modo di amministrare la propria vita. Non si
suggeriscono certi valori se non si crede che da essi segua un bene. Allora
quale bene discende dai valori dei tuoi genitori? Credo un bene intrinseco. Un
bene che deriva dal relazionarsi correttamente con gli altri, dal saper
costruire una buona vita. Perché in fondo abbiamo bisogno di una vita ordinata
e le buone relazioni fatte di «lealtà, onestà e altruismo» ci permettono di
conseguirla. Nietzsche, nella “Genealogia della morale”, scriveva che
l’uomo giusto è giusto anche con chi gli fa del male. Questo significa che in
quella giustizia c’è una sapienza che è legata ad un ordine. Da questo ordine
interiore, che il filosofo definiva «un pezzo di perfezione e di suprema
maestria sulla terra», deriva un bene così profondo che procura felicità e
stabilità superiori ai privilegi più o meno effimeri che derivano dal successo.Un caro saluto,
Alberto
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