Caro professore,
la mia domanda potrà sembrarle banale e scontata, ma
voglio porgliela lo stesso. Qual è la ricetta per vivere una vita felice? Tutti
quanti gli uomini, per natura, ambiscono a vivere una vita all’insegna della felicità.
Si parla spesso di felicità, ma in termini generalmente troppo astratti. Quello
che vorrei sapere è come concretizzare questa parola. Capita spesso di parlare
molto e di agire poco, come dice correttamente il detto: «tra il dire e il
fare c’è di mezzo il mare». Io vorrei tanto non solo parlare della felicità
in termini generici, ma vorrei poterla realizzare e vivere nel vero senso della
parola. Esiste (oppure no) una ricetta che indichi quali ingredienti sono
necessari per la realizzazione del piatto della felicità? È l’amore
l’ingrediente segreto che conferisce alla pietanza quel sapore prelibato e
unico, oppure quell’ingrediente è qualcos’altro? La ringrazio per la sua
disponibilità.Marta, IV A
Cara Marta,
Per tentare di risponderti devo
innanzitutto superare il giudizio negativo e incomodo che lo storico Georges
Minois dà di chi propone ricette sulla felicità. Scrive Minois: «D'altro
canto, coloro che ci vendono ricette di felicità sono dei ciarlatani, poiché
promettono più di quanto possano mantenere; di costoro si può dire, per lo più,
che vendono medicinali, ma non li si può considerare medici» (“La
ricerca della felicità”, Dedalo 2010). E poi dovrei tener conto di ciò che
scrive il filosofo Salvatore Natoli in un bellissimo studio sulla felicità: «Non
esistono affatto ricette di felicità - tanto è vero che esistono gli infelici -,
ma indubbiamente esistono modi comuni di concepirla» (“La felicità”,
Feltrinelli). Superato dunque un certo disagio – non ho l’intenzione di vendere
medicinali senza essere medico e sono consapevole dell’esistenza degli infelici
– cerco tuttavia di condividere con te qualche riflessione. Poiché brami una
sorta di ricetta, dobbiamo chiederci se esista un rimedio standard o se esso
sia del tutto discrezionale. Come per la formula di un tiramisù: esiste un
unico rapporto tra uova, mascarpone, zucchero, cacao in polvere, savoiardi e
caffè? O sono le varianti regionali, senza caffè o senza uova, con i pavesini o
con le gallette, che rendono il dolce più apprezzato a seconda dei diversi
palati? Se consideriamo che la felicità possa essere oggettiva, allora ha senso
chiedersi che cosa sia la felicità; se riteniamo che la felicità differisca nei
diversi individui, allora dobbiamo semplicemente mettere a fuoco cosa ci renda
soggettivamente felici. Sappiamo che i modi per essere felici sono tanti:
quando si danza, si canta, si gioca, si passeggia, si sta a casa, si viaggia;
si fa un progresso nel proprio lavoro, nello studio, quando si realizza
qualcosa, quando si sta con persone che si amano, quando si va ad un concerto,
quando si esce con gli amici. Se la felicità consiste nel fare esperienze
felici, allora essa è più soggettiva che oggettiva. Direi di considerare
quattro forme di felicità. C’è una felicità momentanea che accade inaspettatamente
o ci attraversa fulmineamente, che permea per un po’ la nostra vita e poi se ne
va. Arriva senza sforzo da parte nostra e poi si dissolve, per poi ritornare in
nuove occasioni. E c’è una felicità che è congiunta al piacere e al godimento,
quella che Freud descriveva così: «Il senso di felicità derivante dal
soddisfacimento di un moto pulsionale sfrenato, non domato dall'Io, è senza
confronti più intenso di quello ottenuto saziando una pulsione addomesticata»
(“Il disagio della civiltà”, 1929). Si può essere felici in molti altri
modi e, come diceva il grande poeta Orazio: «... dum licet, ignium / misce
stultitiam consiliis brevem: / dulce est desipere in loco. ... e finché tu
puoi / mescola una breve pazzia alla saggezza: / a tempo è dolce folleggiare (“Odi”,
IV, 12, vv. 26-28)». Dovremmo pertanto saper mescolare una “breve pazzia” alla
saggezza, ma per fare questo dovremmo prima aspirare ad essa e conseguirla. Per
gli antichi la saggezza era considerata una virtù e consisteva soprattutto nella
moderazione e nella giusta misura. Ma al di là della felicità momentanea, di
quella che deriva dall’appagamento di un piacere, di quella che deriva dal
saper governare se stessi con equilibrio, c’è una quarta esperienza della
felicità che ha a che fare con la soddisfazione profonda della propria
esistenza. Per raggiungerla bisogna conoscere bene se stessi: ascoltare i
propri desideri autentici e tentare di realizzarli. La felicità di una vita
intera è data dall’abilità nel dare ascolto alle proprie aspirazioni. Chi non
si conosce e non sa tendere l'orecchio ai propri bisogni e alle proprie
passioni li subisce e non riesce a governare se stesso né a dare direzione al
proprio cammino. Per dare orientamento al proprio percorso, dopo aver compreso
i propri bisogni profondi, occorre saper distinguere tra pulsione e desiderio.
La pulsione, scriveva Freud, è una sorta di spinta che «fluisce in modo
costante dall’interno del corpo» per raggiungere una meta che consiste nel
soddisfacimento di un bisogno. Il desiderio è altra cosa: contiene certo la
spinta dell’organismo, ma esige che il soggetto sappia rappresentarsi la
propria meta e riesca a dare consapevolmente una condotta alla propria energia.
Allora ti direi: vivi l’attimo e dai direzione al tuo cammino. All’interno di
queste modalità potrai fare una buona esperienza della felicità.Un caro saluto,
Alberto
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