Caro professore,
Noto che il rispetto verso le altre persone di questi
tempi è notevolmente calato. Trovo particolarmente irritante il fatto che
sempre più spesso film, canzoni, persone, ecc., vengano giudicate con insulti
senza alcuna argomentazione dietro e che quindi le persone che la pensano
diversamente vengano prese di mira. È normalissimo che ci siano contrasti sulle
opinioni, ma non trovo giusto “discuterne” insultandosi senza esprimere il
proprio pensiero. Ciò risulta irrispettoso e infantile. Ne sono un esempio le
persone che dopo aver visto “La grande bellezza” ne parlano su Twitter
dove possono utilizzare 120 caratteri scrivendo cose tipo: «a me non è
piaciuto perché fa schifo» e risposte come «tu non capisci niente».
Tutti questi commenti sono inutili, perché non portano a nulla né a sapere
perché una cosa è piaciuta o perché non lo è. Quindi mi chiedo perché le
persone devono essere insultate per i loro gusti musicali o artistici in
generale. Siccome la libertà di pensiero è per tutti. E una persona non può
sentirsi superiore e offendere un’altra persona, mascherando questo insulto con
un diritto. Questo infatti non è un suo diritto, può avere o esporre un’altra
linea contrastante, ma non ha altri diritti. Perché le persone non capiscono
che il loro pensiero non è verità assoluta e non devono imporsi pensando di
essere migliori?Nicole, IIIA
Cara Nicole,
Quello che racconti mi ricorda
molto il film per bambini Home, in cui il capitano Smek, il gran capo
dei Boov – extraterrestri con sei gambe – ha sempre ragione e ammutolisce
coloro che osano dissentire dalle proprie idee colpendoli sulla testa con lo
“zittone”, un bastone sormontato da una preziosa pietra ovale. Basta una botta
per ristabilire la ragione e il modo per avere sempre ragione è quello di far
tacere gli altri. Se il filosofo Ludwig Wittgenstein nel “Tractatus
Logico-Philosophicus” (prop. 7) aveva detto che occorre dire ciò che si può
enunciare chiaramente e tacere su ciò che non si può esprimere con altrettanta
precisione, i giovani a cui ti riferisci vivono un paradosso: non riescono a
riferire chiaramente un’idea, ma non riescono neppure a tacere. Non
argomentano, perché non usano il loro vocabolario per esplicitare il punto di
vista da cui guardano e giudicano, ma impiegano semplicemente il linguaggio
come una clava (uno “zittone”), per affermare se stessi e interrompere
l’occasionale interlocutore. Con l’impressione di indurre l’altro al silenzio,
in realtà non si accorgono che anch’essi si sono ridotti al silenzio. Perché un
pensiero indica una direzione dello sguardo, ma un grugnito non è un’idea e non
addita vie percorribili alla ricerca. Questi ragazzi non impongono una
concezione, ma semplicemente se stessi. Si collocano su un piedistallo e si
autolegittimano come profondi conoscitori di qualche materia, ma non sanno dare
conto dei loro giudizi, né produrre pensieri autonomi. Ripetono quello che il
rumore di fondo della comunicazione dei media ha trasmesso con più efficacia.
In fondo, un film – come quello di Paolo Sorrentino del 2013 – può accendere
diverse emozioni e suscitare variegati commenti. Ma ogni interpretazione rivela
sempre il punto di vista del soggetto: i suoi valori, le sue conoscenze, la sua
visione del mondo o la sua idea (più o meno primitiva) dell’estetica, di ciò
che è bello e delle ragioni per cui lo è. Si può esprimere un’insoddisfazione
per un film, esplicitando i parametri su cui si concentra l’insofferenza. E le
argomentazioni vengono giudicate se sono buone o cattive, conformistiche o autentiche,
appiattite sull’abitudine o dotate di immaginazione creativa. Il conformismo
invece vanifica ogni sforzo, azzera la novità e riduce tutto a riproduzione
dell’abitudine. Ci potremmo chiedere: quale aumento di conoscenza e di
comprensione abbiamo ricevuto? Nessuno. La persona che esprime il proprio
“disappunto” in modo grossolano e sgarbato, e che crede di essere superiore,
rivela in realtà quello che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (“Dialettica
dell’Illuminismo”, 1947) avrebbero definito il «conformismo dei
consumatori», ossia l’accettazione acritica della realtà confezionata
dall’industria di massa. Non si rende neppure conto che ogni valutazione
presuppone una disponibilità all’ascolto e che ogni comprensione è legata alle
aspettative, alla formazione e alla disposizione del soggetto che analizza.
Internet e Twitter sono ahimè diventati i luoghi dell’istinto gregario e non
della mediazione; della certificazione della presenza, non
dell’indagine razionale; dell’appartenenza ad un gruppo e non
dell’individualità. L’anonimato, la distanza e la mancanza dell’interlocutore
favoriscono i comportamenti istintivi e senza misura. Il sociologo Zigmunt Bauman ci ricorda che «l'uniformità nutre il
conformismo, e l'altra faccia del conformismo è l'intolleranza». Egli afferma che là dove c’è omogeneità è
«estremamente difficile acquisire quelle
capacità del carattere e quelle
abilità pratiche necessarie per affrontare le diversità e le incertezze»: ed è per questo che –
non avendo maturato tali virtù – si temono gli altri. Perché gli altri possono
introdurre elementi che destabilizzano le certezze (assolute) precostituite. Tali
comportamenti ricordano quelli degli schiavi della caverna di Platone: questi uomini, incatenati dalla loro ignoranza, faticano ad accettare il nuovo e
disdegnano il rischiaramento prodotto dalla molteplicità delle ragioni. Si autocondannano così a reiterare la banalità (“La
Repubblica”, lib. VII, 514
b – 520 a). Un caro saluto,
Alberto