Caro professore,
Ieri stavo pensando a quante volte l’orgoglio soffochi le
nostre emozioni che a loro volta non possono farsi spazio al di fuori della
nostra personalità. È giusto mantenere questa maschera di orgoglio? Eppure, pensandoci,
l’orgoglio è solo uno dei tanti castelli in aria che ci costruiamo per
nasconderci dietro la nostra immagine per paura di esporci veramente. Perciò,
in questo caso, sarebbe il nostro subconscio che ci induce a mettere dei
paletti ai nostri sentimenti. Come facciamo a capire quando è giusto che
l’orgoglio prenda il controllo di noi stessi oppure che in realtà ci stiamo
autodistruggendo?Daniela, IV A
Cara Daniela,
L’orgoglio è certamente una
“maschera” che impedisce l’incontro con l’altro. Forse è un meccanismo di
difesa che ci tutela dalla svalutazione altrui. Ma chi usa l’orgoglio per affermarsi, perché teme di non ottenere sufficiente riconoscimento, è
probabile che non abbia adeguata fiducia in sé. Pensiamo sempre all’orgoglio
come ad una sorta di atteggiamento individuale, ma un tempo c’era anche
l’orgoglio di classe: rampolli aristocratici tronfi della loro appartenenza
privilegiata. Ricorderai il libro “Orgoglio e pregiudizio” di Jane
Austen (1813) in cui Mr. Darcy si
rifiuta di ballare con persone che non sono del suo stesso rango. Charlotte
Lucas, amica della protagonista del romanzo Elizabeth, è persino pronta a
trovare una giustificazione per quel comportamento altezzoso.
Ella afferma infatti che: «Non ci si può meravigliare che un
giovanotto così elegante, di buona famiglia, ricco, con tutto a suo favore, non
abbia un'alta opinione di sé. Se posso esprimermi così, ha diritto a essere
orgoglioso. Ma l’amica replica: «È verissimo, [...] e potrei
facilmente perdonare il suo orgoglio, se non avesse mortificato il mio».
Ecco qua il punto: l’orgoglio altrui può mortificare il nostro. L’orgoglio
umiliato provoca la collera, diceva Voltaire. «Un uomo che in guerra viene
colpito da venti colpi di fucile, non va in collera. Ma un teologo ferito dal
rifiuto di un assenso, diventa furioso e implacabile». In questo caso
l’orgoglio di Mr. Darcy è una sorta di
tracotanza nelle relazioni. Ma l’orgoglio è sempre una forma di eccesso? Non
abbiamo avuto dell’orgoglio sempre la stessa idea. E anche oggi il
significato di tale concetto non è univoco. Per gli antichi l’orgoglio era la «giusta
considerazione di sé». Aristotele nell’“Etica nicomachea”
pone la magnanimità (l’orgoglio) come virtù intermedia tra la vanità e
l’umiltà. Se l’umiltà può condurre all’umiliazione del soggetto, la vanità è
all’opposto un’illusoria e disperata esaltazione di sé. Ma anche per il
filosofo scozzese David Hume, nel “Trattato sulla natura umana”, il
significato è analogo. Scrive l’autore: «preciso che per orgoglio intendo
quella piacevole impressione che nasce nella mente quando ci sentiamo
soddisfatti di noi stessi per la nostra virtù, bellezza, ricchezza o potere».
Ad un certo punto della propria storia, l’uomo ha cominciato a considerare non
solo il giusto sentimento del proprio valore, ma ha esagerato l’opinione dei
propri meriti, ha sopravvalutato i pregi, le forze ed ha assunto un
atteggiamento altezzoso nei confronti degli altri. In un attimo la
consapevolezza del valore e della dignità della persona si è dissolta in
atteggiamenti di boria ed arroganza. Qualcosa ci è sfuggito di mano. Se
affermiamo infatti che una persona è orgogliosa, è più facile che la riteniamo
superba che semplicemente contenta e soddisfatta di sé. Secondo Hume l’orgoglio
e l’umiltà sono passioni che pur essendo diverse hanno il medesimo oggetto.
Questo oggetto è l’io, che per il filosofo non è esattamente un oggetto (una
sostanza), ma «quella successione di idee e di impressioni correlate di cui
abbiamo intimamente memoria e consapevolezza». Concentrati sul nostro io, a
seconda che l’idea che abbiamo di noi stessi sia più o meno favorevole
proveremo l’una o l’altra di queste affezioni. Così potremmo essere «sollevati
dall'orgoglio o abbattuti dall'umiltà». L’autore ci ricorda che anche
quando la nostra mente prende in considerazione altri temi lo fa sempre avendo
di mira il soggetto, tanto che «quando non è l'io l'oggetto della nostra
considerazione, non c'è più posto né per l'orgoglio né per l'umiltà».
Certo, possiamo essere orgogliosi della nostra bellezza, della nostra casa, di
qualche qualità, della nostra famiglia, di un lavoro ben fatto, di un obiettivo
raggiunto. Ma, come diceva Mary Bennet (sorella di Elizabeth) «L'orgoglio appartiene più all'opinione che
abbiamo di noi stessi, la vanità a quello che vorremmo che gli altri pensassero
di noi». E l’eccessiva opinione di se stessi può portare
all’autodistruzione o soffocare, perché ostacola gli incontri autentici,
reprime la vitalità ed estingue la curiosità dell’altro. Se, come diceva Hume,
è il nostro io ad essere «il vero oggetto della passione», allora
quell’io può diventare ipertrofico e non avvertire più l’altro. Avere una
giusta opinione di sé consente invece di comprendere i propri punti di forza e
di debolezza, le proprie fragilità e quelle altrui. Allora è opportuno essere
orgogliosi, ma non superbi, compiacersi senza essere altezzosi, essere
soddisfatti di sé senza essere arroganti: chi ha una giusta stima di sé non
teme lo sguardo dell’altro e non sente il bisogno di sminuirlo ed ha maggiore
facilità nell’instaurare relazioni positive. Un caro saluto,
Alberto
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