Caro professore,
mi hanno sempre detto che “sbagliando si impara” e adesso ho capito che
è veramente così…si sbaglia ed è normale, capita; fa male quando capisci di non
aver fatto la cosa giusta, di esserti comportata non come si dovrebbe…la verità
ti si scaglia davanti e ti fa rimanere senza parole. Mi è successo…ma da questo
ho capito come le persone che ti vogliono davvero bene, che non ti dimenticano,
ci saranno sempre e ti sosterranno. Sto parlando della mia famiglia e dei miei fantastici
amici… Ogni giorno capisco quanto la mia felicità dipenda da loro, oltre che da
me stessa. Le persone prima o poi si rivelano per quello che sono, perciò
bisogna stare anche molto attenti a fidarsi delle persone giuste, quelle che
nonostante tutto non ti deluderanno mai, quelle che desiderano solo il meglio
per te e non sono gelose, non ti sminuiscono…Insomma, abbiamo bisogno di
avvicinarci alle persone che ci rendono felici. Un abbraccio, una parola, un
sorriso inaspettato, un messaggio che ti fa sorridere…Sono queste le cose belle
della vita. La mia domanda è: nella vita la vera felicità è essere la felicità
di qualcuno?Carlotta, ID
Cara Carlotta,
Di solito ci chiediamo che cosa
ci rende felici e se possiamo trovare la chiave della felicità: se riusciremo a
governare questo meraviglioso stato d’animo e a riprodurlo autonomamente. Il filosofo
Arthur Schopenhauer, ragionando sul tema, aveva proposto di considerare questa
ripartizione: «Ciò che uno è, […]
ciò che uno ha e […] ciò che uno
rappresenta (Vedi in “Parerga e
paralipomena” gli “Aforismi sulla
saggezza della vita”, 1851). Egli
affermava che la maggior parte degli uomini è convinta che la felicità dipenda
da ciò che uno possiede o dalle opinioni degli altri (onori e fama), mentre
secondo l’autore per essere felici occorre badare soprattutto a ciò che uno è,
ossia alle qualità intrinseche dell’individuo (personalità, temperamento,
formazione). Fin qui nulla da obiettare: è un suggerimento che si radica negli
insegnamenti antichi del mondo orientale o di quello greco-romano sul modo di
concepire la saggezza. Mi pare che tu faccia notare un’altra
dimensione della felicità: quella che deriva dalla relazione. Questa non è riducibile all’autosufficienza dello stoico e tuttavia non è mai del tutto
nelle nostre mani, infatti essa addirittura la precede e la rende possibile. È molto
bella l’idea di «essere la felicità di
qualcuno», perché specchiati nell’entusiasmo dell’altro anche noi
diventiamo felici e dagli sguardi accoglienti traiamo benessere e forza. Quale
nipotino non gioisce per l’entusiasmo dei nonni, quale amato non è conquistato dall’amore
dell’amante («la stessa identica fiamma
bruciava due cuori», scriveva Ovidio). Un figlio avverte la felicità dei
genitori, un ragazzo sente il calore dei compagni, un insegnante che ha creato
un buon rapporto con gli studenti è felice di entrare in classe perché si sente
rispettato, così come uno studente che viene valorizzato intuisce che la propria
felicità passa da quel riconoscimento. Sì, ognuno di noi sa che la propria
felicità “dipende” dagli altri oltre che da sé. Ma è giusto collocare il baricentro
della felicità nell’altra persona e non su se stessi? In fondo non dobbiamo
lavorare con lo scopo esclusivo di assecondare la felicità degli altri, perché potremmo dimenticare di prenderci
cura dei nostri bisogni e di coltivare i nostri progetti. Potremmo non
diventare mai autonomi perché rincorriamo gratificazioni esterne. Gli
antichi ci hanno infatti ammonito a non riporre la nostra felicità sugli umori o
sulle opinioni altrui. Ma in che senso dobbiamo allora intendere il verbo “dipendere”?
Se intendiamo dipendere come essere sottomessi
all’autorità dell’altro o da essa determinati, allora è chiaro che la felicità si
dilegua, perché non siamo più gli artefici della nostra vita. Se intendiamo dipendere non nel senso di subire, ma
nel senso di derivare, allora sentiamo che non siamo più ostaggio dell’altro,
ma che grazie alle relazioni si origina la felicità. Il tuo ragionamento ci
fa fare un passo in avanti. Hai capito che non c’è soggetto senza un’alterità
che lo attiva. Ricordi la storia di Narciso ed Eco? Narciso è il giovane
destinato ad una lunga vita («Si se non
noverit») «purché non incontri se
stesso» e Eco, «la ninfa fatta di
voce», è colei che «non sa tacere se
uno parla / né parlare per prima». Trovo molto bella e opportuna l’interpretazione del filosofo Umberto
Curi (Miti d’amore. Filosofia dell’Eros,
Bompiani, 2009), il quale scrive: «Mentre
Narciso è preso nella rete della pura identità ed è toccato soltanto dal suo
proprio riflesso privo di sostanza, Eco è la mera alterità ed è ella stessa
soltanto un riflesso privo di sostanza. Egli è troppo posseduto dal suo proprio
io per poterlo dividere con altri, mentre lei non ha un proprio sé da poter
condividere con altri». E più avanti scrive che: «Solo riconoscendo l'altro, l'identico può esprimere la propria
identità; solo conservando la propria identità, l'altro può affermare la
propria alterità». Se l’altro è necessario per generare l’identità significa
che non c’è mai autosufficienza completa. Avvertire di essere la felicità di
qualcuno consente di maturare l’identità e di esplorare le potenzialità individuali.
Non siamo felici perché soddisfiamo le aspettative altrui, ma perché
riconosciuti e amati dall’altro possiamo comprendere a fondo i nostri bisogni e
percorrere un sentiero tracciato da quel desiderio che più ci costituisce.Un caro saluto,
Alberto
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