Caro professore,
la mia non è una domanda personale, è una domanda che mi pongo da molto
tempo; ma forse non è neanche una domanda: è un dubbio. Quand’ero piccola non
mi ponevo queste questioni, ma all’inizio delle medie ho cominciato a pensare a
qualcosa di grande: l’universo e l’infinito. Ecco la mia domanda o meglio il
mio dubbio: non riesco a capire il senso dell’infinito, sembra quasi
inconcepibile che esista qualcosa che non finisce, che esista una cosa senza
limiti. Quando ho pensato e ragionato sono stata scossa e ancora oggi non
riesco ad immaginare. Mi piacerebbe discutere con lei sulla concezione e sul
significato di infinito.
Arianna, IC
Cara Arianna,
Forse è proprio a partire dalla scuola media che abbiamo
cominciato a sentirci spiazzati dall’incontro con l’infinito. Quando abbiamo
riflettuto sull’infinito numerico, sui numeri irrazionali come √2, il rapporto
tra la diagonale e il lato del quadrato, o π, il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un
cerchio, e abbiamo pensato al fatto che dopo la virgola seguono infiniti numeri,
ci è parso di abitare un mondo non solo incredibilmente complesso, ma anche
inquietante e vertiginoso. Siamo stati probabilmente sottoposti allo stesso choc che ebbero i pitagorici quando
compresero che √2 non può essere ricondotto ad un rapporto finito e pertanto
cercarono (invano) di tenere segreta la scoperta. Ricordo che qualche anno fa
il matematico bolognese Bruno D’Amore (1946) nel libro “Matematica, stupore e poesia” (Giunti 2009) riportava l’approssimazione
di circa 10.000 cifre dopo il 3,14 (vedi le pp.11-17). Ora tutti sappiamo che le
cifre che seguono la virgola sono di solito ridotte a due per facilitare i
calcoli, ma quando sfogliamo pagine e pagine che contengono esclusivamente delle
cifre, rimaniamo impressionati dall’inarrestabile sequenza e nello stesso tempo
intimoriti e smarriti di fronte a tale manifesta verità. Bruno D’Amore riferisce
poi che nel 2006, grazie a computer velocissimi, sono stati calcolati
200.000.000.000 di numeri dopo la virgola in 13 giorni e 14 ore. Ci sembra inverosimile
che in una parte così piccola si possa nascondere un infinito. Insomma, quando
abbiamo a che fare con l’infinito ci sembra di uscire di senno. Zenone di Elea nel
V sec. a. C., ammettendo che la realtà fosse infinitamente divisibile, aveva
creato meravigliosi paradossi, tra cui quello di Achille e della tartaruga. Un
secolo dopo Aristotele aveva tuttavia smontato le apparenti contraddizioni sull’impossibilità
del movimento, distinguendo tra infinito «secondo
la divisione o secondo gli estremi» (“Fisica”
233, a 25). Ossia, come spiega bene il matematico Paolo Zellini, nel bellissimo
libro “Breve storia dell’infinito”
(Adelphi, 1993), tra «infinito per
addizione e infinito per divisione». Addizionare infinite volte un’unità di
lunghezza porta a comporre distanze infinite e non percorribili in un tempo
finito; ma, al contrario, come insegna anche il fisico italiano Carlo Rovelli, se
si divide una corda in un numero infinito di parti, la somma di quell’infinità
di parti non produce l’infinito, ma la corda di partenza e quindi una grandezza
finita. Carlo Rovelli ne “La realtà non è
come ci appare” (Raffaello Cortina Editore, 2014) intitola un capitolo proprio
“La fine dell’infinito”. C’è un
limite alla divisibilità della materia, e questo limite è chiamato Lp, ossia “lunghezza di Planck”, «un milionesimo di un miliardesimo di un
miliardesimo di un miliardesimo di centimetro (10–33 centimetri)», e probabilmente c’anche
un limite all’estrema grandezza. Una collega che insegna Storia dell’arte mi ha
riferito che un giorno durante una gita al mare ha detto alla figlia: «Guarda il mare infinito». E le figlia le
ha risposto: «Mamma, guarda il
mappamondo. Il mare non è infinito». Le intuizioni dei bambini ci
spiazzano, perché siamo abituati ad usare il linguaggio in modo creativo. Talvolta
i bambini intuiscono ciò che poi ci insegnano con precisione i fisici come
Rovelli: «Ma quello che vediamo e, per
ora, capiamo dell’Universo non è un annegare nell’infinito. È un immenso mare,
ma finito». I libri di Zellini e di Rovelli sono molto utili per orientarsi
sulla questione dell’infinito, per ricostruire la storia del concetto e per
collegarlo alle scoperte delle fisica contemporanea, ma se devo immaginare
invece il senso di stupore che hanno provato alcuni filosofi di fronte
all’infinito, allora penso a Giordano Bruno e a Blaise Pascal. Nel libro “De l’infinito, universo e mondi” (1584) dell’autore
nolano vi è un dialogo serrato tra Elpino, che cerca di difendere l’idea del
mondo finito, e Filoteo, che sostiene l’idea dell’immensità dei mondi. Giordano
Bruno è certamente un uomo innamorato dell’infinito e la sua scrittura brillante
è ricchissima di aggettivi che segnalano stupore e passione per l’universo.
Blaise Pascal qualche anno dopo medita anche sul significato dell’infinito per
l’uomo. Gli “Opuscoli” e i “Pensieri” contengono molte considerazioni
sia sulla divisibilità dell’infinito geometrico sia sullo spaesamento che l’uomo
prova di fronte all’immensità dello spazio. Scrive Pascal: «Che cos’è un uomo nell’infinito?». E
indagando la condizione mediana dell’uomo, sospeso tra infinitamente grande e
infinitamente piccolo, egli afferma che l’uomo si «sgomenterà di se stesso, e considerandosi
sospeso […] tra questi due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista
di tali meraviglie». Credo che dallo «sgomento»
e dal «tremore» e dalla «meraviglia» l’uomo non si sia mai
allontanato, perché questi sentimenti sono da sempre i presupposti che lo esortano
alla ricerca.
Alberto
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