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Cor-rispondenze

lunedì 9 novembre 2015

L'universo e l'infinito

Bruno Infinito book.jpg

Caro professore,
la mia non è una domanda personale, è una domanda che mi pongo da molto tempo; ma forse non è neanche una domanda: è un dubbio. Quand’ero piccola non mi ponevo queste questioni, ma all’inizio delle medie ho cominciato a pensare a qualcosa di grande: l’universo e l’infinito. Ecco la mia domanda o meglio il mio dubbio: non riesco a capire il senso dell’infinito, sembra quasi inconcepibile che esista qualcosa che non finisce, che esista una cosa senza limiti. Quando ho pensato e ragionato sono stata scossa e ancora oggi non riesco ad immaginare. Mi piacerebbe discutere con lei sulla concezione e sul significato di infinito.
Arianna, IC



Cara Arianna,
Forse è proprio a partire dalla scuola media che abbiamo cominciato a sentirci spiazzati dall’incontro con l’infinito. Quando abbiamo riflettuto sull’infinito numerico, sui numeri irrazionali come √2, il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato, o π, il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio, e abbiamo pensato al fatto che dopo la virgola seguono infiniti numeri, ci è parso di abitare un mondo non solo incredibilmente complesso, ma anche inquietante e vertiginoso. Siamo stati probabilmente sottoposti allo stesso choc che ebbero i pitagorici quando compresero che √2 non può essere ricondotto ad un rapporto finito e pertanto cercarono (invano) di tenere segreta la scoperta. Ricordo che qualche anno fa il matematico bolognese Bruno D’Amore (1946) nel libro “Matematica, stupore e poesia” (Giunti 2009) riportava l’approssimazione di circa 10.000 cifre dopo il 3,14 (vedi le pp.11-17). Ora tutti sappiamo che le cifre che seguono la virgola sono di solito ridotte a due per facilitare i calcoli, ma quando sfogliamo pagine e pagine che contengono esclusivamente delle cifre, rimaniamo impressionati dall’inarrestabile sequenza e nello stesso tempo intimoriti e smarriti di fronte a tale manifesta verità. Bruno D’Amore riferisce poi che nel 2006, grazie a computer velocissimi, sono stati calcolati 200.000.000.000 di numeri dopo la virgola in 13 giorni e 14 ore. Ci sembra inverosimile che in una parte così piccola si possa nascondere un infinito. Insomma, quando abbiamo a che fare con l’infinito ci sembra di uscire di senno. Zenone di Elea nel V sec. a. C., ammettendo che la realtà fosse infinitamente divisibile, aveva creato meravigliosi paradossi, tra cui quello di Achille e della tartaruga. Un secolo dopo Aristotele aveva tuttavia smontato le apparenti contraddizioni sull’impossibilità del movimento, distinguendo tra infinito «secondo la divisione o secondo gli estremi» (“Fisica” 233, a 25). Ossia, come spiega bene il matematico Paolo Zellini, nel bellissimo libro “Breve storia dell’infinito” (Adelphi, 1993), tra «infinito per addizione e infinito per divisione». Addizionare infinite volte un’unità di lunghezza porta a comporre distanze infinite e non percorribili in un tempo finito; ma, al contrario, come insegna anche il fisico italiano Carlo Rovelli, se si divide una corda in un numero infinito di parti, la somma di quell’infinità di parti non produce l’infinito, ma la corda di partenza e quindi una grandezza finita. Carlo Rovelli ne “La realtà non è come ci appare” (Raffaello Cortina Editore, 2014) intitola un capitolo proprio “La fine dell’infinito”. C’è un limite alla divisibilità della materia, e questo limite è chiamato Lp, ossia “lunghezza di Planck”, «un milionesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di centimetro (10–33 centimetri)», e probabilmente c’anche un limite all’estrema grandezza. Una collega che insegna Storia dell’arte mi ha riferito che un giorno durante una gita al mare ha detto alla figlia: «Guarda il mare infinito». E le figlia le ha risposto: «Mamma, guarda il mappamondo. Il mare non è infinito». Le intuizioni dei bambini ci spiazzano, perché siamo abituati ad usare il linguaggio in modo creativo. Talvolta i bambini intuiscono ciò che poi ci insegnano con precisione i fisici come Rovelli: «Ma quello che vediamo e, per ora, capiamo dell’Universo non è un annegare nell’infinito. È un immenso mare, ma finito». I libri di Zellini e di Rovelli sono molto utili per orientarsi sulla questione dell’infinito, per ricostruire la storia del concetto e per collegarlo alle scoperte delle fisica contemporanea, ma se devo immaginare invece il senso di stupore che hanno provato alcuni filosofi di fronte all’infinito, allora penso a Giordano Bruno e a Blaise Pascal. Nel libro “De l’infinito, universo e mondi” (1584) dell’autore nolano vi è un dialogo serrato tra Elpino, che cerca di difendere l’idea del mondo finito, e Filoteo, che sostiene l’idea dell’immensità dei mondi. Giordano Bruno è certamente un uomo innamorato dell’infinito e la sua scrittura brillante è ricchissima di aggettivi che segnalano stupore e passione per l’universo. Blaise Pascal qualche anno dopo medita anche sul significato dell’infinito per l’uomo. Gli “Opuscoli” e i “Pensieri” contengono molte considerazioni sia sulla divisibilità dell’infinito geometrico sia sullo spaesamento che l’uomo prova di fronte all’immensità dello spazio. Scrive Pascal: «Che cos’è un uomo nell’infinito?». E indagando la condizione mediana dell’uomo, sospeso tra infinitamente grande e infinitamente piccolo, egli afferma che l’uomo si «sgomenterà di se stesso, e considerandosi sospeso […] tra questi due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie». Credo che dallo «sgomento» e dal «tremore» e dalla «meraviglia» l’uomo non si sia mai allontanato, perché questi sentimenti sono da sempre i presupposti che lo esortano alla ricerca.
Un caro saluto,
Alberto

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