Caro professore,
Mi porto nel cuore una domanda che da molto tempo non trova risposta,
nascosta dal timore di non essere compreso. Sono giunto a credere di essere
colpevole del peggiore dei crimini, quello di essere uomo, quello di essere
vivo. Guardando con i miei occhi l’apice della malvagità umana, dopo aver
visitato il campo di concentramento di Dachau e pensando a ciò che è avvenuto
lì e soprattutto nelle pianure polacche, così silenziose, abbandonate dal
tempo, mi sono trovato inghiottito non dalla pena, non dal rancore, ma
dall’odio. Un odio che si è scagliato, contro i carnefici, certamente, ma anche
contro me stesso. Una sensazione che mai avevo provato in anni di letture sulla
Shoah. Per il semplice fatto di essere testimone di tanta atrocità, di essere
vivo al cospetto delle “fabbriche di morte”,
mi sono sentito investito dei crimini della razza ariana, perché in
fondo che diritto ho io di essere spettatore, senza merito, e non vittima? Il
vero problema dei campi di sterminio consta nel fatto che ciò che avvenuto è un
crimine di uomini, non di demoni, contro l’umanità, e in quanto uomo mi sento
coinvolto, contro la mia volontà e contro ogni tentativo di razionalizzare la
cosa, dalla malvagità di questa specie. E di fronte alla follia di questo
“migliore dei mondi possibili” non riesco a perdonarmi. Dunque le chiedo: come
ci perdoneremo?
Filippo, VB
Caro Filippo,
La visita diretta ai campi di
concentramento o di sterminio rende ancora più insopportabile ciò che già si
conosce sulla Shoah. Pervasi da un senso di orrore e di impotenza, di rabbia e di
disgusto e identificandoci con il dolore delle vittime, sviluppiamo
empaticamente sensi di colpa e di vergogna. Avvertiamo che è accaduto qualcosa
di terribile e di imperdonabile che non avrà espiazione e comprendiamo di
essere «spettatori senza merito». Da
dove nascono questi sentimenti per ciò che è successo? Hai provato vergogna
perché l’empatia che hai maturato ha potenziato in te la capacità di riconoscere
l’oscenità per l’abisso in cui l’uomo è precipitato. E Primo Levi ne “La Tregua” scriveva: «la vergogna che i tedeschi non conobbero,
quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri». Anche Marco
Belpoliti, in un meraviglioso libro su Primo Levi (“Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015), ricorda che «chi prova la vergogna è il giusto, e non
l'ingiusto; chi assiste impotente al male, e non chi lo commette. La volontà
buona è totalmente impotente». Di solito si prova vergogna per essere stati
scoperti a compiere qualcosa di socialmente riprovevole, mentre qui il
malessere profondo che avverti in te nasce per aver scoperto di far parte dell’unica
specie che può eccellere nel male. Così nessuno può sentirsi estraneo, anche se
non è stato direttamente coinvolto in azioni nefande, né ignorare una sorta di
corresponsabilità che bussa alla coscienza come senso di colpa. Essa ha a che
fare con il non aver potuto evitare il male. Quando il filosofo tedesco Karl
Jaspers tornò in Germania dopo la guerra riprese nel 1946 le sue lezioni
all’Università, tenendo dei corsi che avevano come tema "la questione
della colpa". Egli parlava di quattro tipi di colpa: una colpa giuridica (la
trasgressione delle leggi di cui si occupa il tribunale), una colpa politica
(il modo con cui uno stato governa e che i cittadini condividono), una colpa morale
(le azioni individuali che procurano sofferenza) e una colpa metafisica: quella
di essere ancora vivi. Scrive infatti Jaspers: «Il fatto che uno è ancora
in vita, quando sono accadute delle cose di
tal genere, costituisce per lui una colpa incancellabile». Quest’ultima, provata dai sopravvissuti, ma
che ogni uomo avverte di fronte a ciò che è accaduto, è stata definita da
Zygmunt Bauman una «colpa senza
responsabilità». Egli in “Una nuova
condizione umana” [Vita e Pensiero, 2003] afferma che essa «non dipende da un rapporto di causa-effetto
tra le mie azioni (o il mio essere passivo) e la sofferenza dell'altro: sono
semplicemente colpevole del fatto che un altro essere umano soffra». (O abbia
sofferto). In questo senso intuiamo la nostra responsabilità, di essere
profondamente implicati con la storia dell’uomo e che dovremo sempre rispondere
di fronte al male. La questione del perdono è anch’essa complessa: se non siamo
direttamente colpevoli, ma solo indirettamente e come specie, della sofferenza
di qualcuno, come ci possiamo perdonare? Il perdono può essere esterno o interno.
Ci sono criminali che non sono stati perdonati per i propri misfatti e che
nella loro coscienza invece si autoassolvono con leggerezza, negando persino di
avere recato delle offese; così come ci sono persone che, pur perdonate dalla
persona ferita o senza aver commesso realmente del male, non riescono interiormente
a perdonarsi. Non abbiamo bisogno di un perdono esterno, perché non siamo
direttamente responsabili di fatti riprovevoli, ma proviamo vergogna – di
fronte all’orrore, anche se compiuto da altri – e colpa – per un male che
sappiamo inemendabile –, pertanto non ci possiamo né colpevolizzare né
assolvere del tutto. Per questo il ricordo diventa un dovere morale, nel senso
letterale di recordare, ossia
reimmettere nel cuore, perché, come riportava il titolo di un libro pubblicato
nel 1954 dall'ANED, l’associazione degli
ex deportati, potremmo dire che solo «L’oblio è colpa».
Un caro saluto,
Alberto
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