Caro professore,
Nel corso dell’anno scolastico la
sensazione che l’uomo per crescere debba necessariamente soffrire si è sempre
più affermata. Sembra che solo soffrendo l’uomo possa comprendere la sua vera
natura e la profondità e l’irrazionalità del mondo in cui vive. Oltre a giganti
della letteratura, come Pascoli, Pirandello o Leopardi, ho studiato alcuni
filosofi che hanno sofferto nella vita ed hanno scavato nelle profondità
dell’esistenza umana per scoprirne le verità e comprenderla pienamente. Il
primo è stato Arthur Schopenhauer, il quale ha dedotto che il mondo per l’uomo
non è nient’altro che volontà e rappresentazione. Purtroppo ha dovuto patire la
perdita del padre morto suicida quando egli era ancora adolescente. Il secondo è
stato Søren Kierkegaard. Il filosofo danese ha posto al centro della sua
filosofia il singolo, l’individuo umano e l’importanza delle scelte che
determinano l’esistenza. Egli ha avuto un terribile rapporto con il padre (a
causa del secondo matrimonio) e ha sofferto la morte di cinque suoi fratelli.
Ed infine Nietzsche, il quale traendo spunto dalla cultura greca dei
presocratici ha dimostrato l’impossibilità di dominare la vita con la ragione,
sostenendo così l’irrazionalità dell’esistenza di ogni uomo. Ha sofferto per
buona parte della sua vita di una malattia celebrale che negli ultimi anni lo
ha portato alla pazzia. Questi tre grandi filosofi sono tre esempi che
dimostrano l’impossibilità dell’uomo di crescere se trascorre una vita nella
completa felicità e nella perfezione. Lo stesso Nietzsche ha affermato: “Le specie non crescono nella perfezione: i
deboli tornano sempre di nuovo a soverchiare i forti […] i deboli hanno più
spirito”. Sembra che una vita felice sia una vita vissuta nella
superficialità senza una percezione della vera profondità della vita. Ma perché
è così? Perché l’unico modo per l’uomo di conoscere sé stesso, e l’importanza
della propria esistenza, avviene nella sofferenza? L’uomo nella sofferenza
evolve, muta, cambia la sua concezione del mondo scoprendo com’è la realtà vera
e propria. Un esempio più vicino a noi è l’esperienza del “treno della memoria”
fatta da Daniela e Alberto (due miei compagni di classe). Il “treno della
memoria” consiste in viaggio nei luoghi simbolo dell’Olocausto per ricordare e
non dimenticare mai questo terribile e inumano avvenimento. Questa esperienza
naturalmente li ha cambiati. Ora hanno un’altra visione del mondo, a parer mio
totalmente migliore rispetto a prima, molto più profonda. Alberto è rimasto scioccato
e ha tuttora ha bisogno di tempo per riprendersi. Daniela invece ha detto che
ora comprende l’importanza della vita di ogni singolo individuo. Ella inoltre
ha affermato che ha una maggiore cognizione che di fronte a sé ha degli uomini
con le stesse aspirazioni, che possiedono desideri e con gli stessi sentimenti
ed emozioni che ha lei stessa. Ma la mia domanda, che ho già citato in
precedenza, ritorna. Ma perché l’uomo deve necessariamente soffrire e vedere le
atrocità, le bruttezze, le insensatezze di questo folle mondo per comprendere
che la vita è importante, che la nostra esistenza è importante, che tutto è
irrazionale e che siamo solamente delle nullità in confronto alla grandezza del
tutto e nessun individuo umano è al centro del tutto? Perché bisogna scavare
negli oscuri e atroci abissi della vita per comprenderla del tutto?Alessandro, VA
Caro Alessandro,
Maturità psicologica e maturità
esistenziale sono legate ed entrambe attraversano la sofferenza. Per diventare
grandi si deve soffrire, perché ogni piccolo processo di crescita implica la
trasformazione e dunque l’abbandono di una condizione armonica acquisita nel
tempo: gli eventi della vita e la loro interpretazione dissolvono le certezze e
fanno impallidire le più ostinate persuasioni e ogni persona deve superare ostacoli
e pensieri contrastanti per conseguire una nuova forma di equilibrio. Ma poi
c’è una maturità esistenziale. Che ci sia un rapporto tra conoscenza e dolore era
cosa ben nota agli antichi. Il filosofo Umberto Curi scrive pagine bellissime su
questo rapporto, ricordandoci «che
la “sofferenza” (páthos) possa produrre “conoscenza” (máthos) è convinzione che affiora ripetutamente in
numerosi testi del mondo greco arcaico e classico». Nella tragedia Agamennone di Eschilo, infatti, nella
preghiera a Zeus il Coro attribuisce alla divinità il merito di aver condotto
l’uomo a essere saggio: «Zeus a saggezza
avvia i mortali, / valida legge avendo fissato: / conoscenza attraverso dolore
(Eschilo, Agamennone, v. 176 e ss)». La
frase del Coro non si riferisce alla fatica di acquisire nuove nozioni, afferma
piuttosto che il dolore fornisce all’uomo un nuovo sapere di sé. Qual è la
peculiarità della conoscenza, allora? Conoscere non si riduce ad un generico
apprendere un’arte o una disciplina. Consiste soprattutto nell’afferrare la
propria natura: attraverso il dolore l’uomo scopre l’essenza intrinsecamente effimera
della vita, per questo conoscere se stessi è anche un “ri-conoscersi”: nel
disvelare la propria natura gli uomini comprendono il proprio destino. Non sono
disposti ad ingannarsi, a perdere tempo. Il dolore non lascia spazio a
illusioni. Ci ricorda che siamo mortali. Allora scaviamo «negli oscuri e atroci abissi della vita» fino a quando non facciamo
esperienza della nostra finitezza. E quando giungiamo a questa dimestichezza
con la vita, spesso ci si responsabilizziamo e, come i tuoi compagni, immersi
nel dolore collettivo di un popolo, ci chiediamo come continuare a vivere.Un caro saluto,
Alberto
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