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Cor-rispondenze

lunedì 30 ottobre 2017

Umiltà e modestia


Caro professore,
La mia domanda non riguarda la vita o particolari argomenti filosofici, ma una frase che ho letto in un libro e che da un anno a questa parte mi ha lasciato molti dubbi: «Sii umile, ma mai modesta», cita Susanna Tamaro nel suo romanzo “Va’ dove ti porta il cuore” ed io, nonostante le innumerevoli riflessioni ricevute e le domande poste ad altre persone, non ho ancora capito quale insegnamento l'autrice intenda trasmettere. Non so, lo ammetto, cosa siano l'umiltà e la modestia e cosa, effettivamente, le distingua l'una dall'altra, ma vorrei capirlo e spero che lei possa aiutarmi a farlo. La ringrazio in anticipo,
Beatrice, 3γ


Cara Beatrice,
Grazie al tuo suggerimento ho ripreso il libro di Susanna Tamaro che avevo scoperto con piacere anni fa. L’ho riletto qua e là e verso la fine ho trovato l’idea a cui fai riferimento. La nonna Olga, protagonista del romanzo, scrivendo alla nipotina Marta per darle alcuni consigli su come affrontare la vita, afferma: «Forse potrai capirmi soltanto quando sarai più grande, potrai capirmi se avrai compiuto quel percorso misterioso che dall'intransigenza conduce alla pietà. Pietà, bada bene, non pena. Se proverai pena, scenderò come quegli spiritelli malefici e ti farò un mucchio di dispetti. Farò la stessa cosa se, invece di umile, sarai modesta, se ti ubriacherai di chiacchiere vuote invece di stare zitta». Non ho la pretesa di esaurire i significati che Susanna Tamaro ha considerato per il proprio lavoro, ma nel periodo riportato ci sono dei segnali che ci possono aiutare a comprendere. Poiché tutto il romanzo è un invito all’autenticità, alla ricerca della genuinità e della verità, evidentemente l’autrice desidera differenziare l’umiltà dalla modestia, attribuendo solo alla prima un significato positivo. Nei dizionari la differenza morale tra i due concetti non è così evidente: modestia e umiltà rimandano a idee analoghe e il loro contenuto è spesso sovrapponibile. Le persone che incarnano modestia e umiltà sono entrambe consapevoli delle proprie qualità e dei propri meriti, ma in genere sono discrete: rifuggono le lodi e non si esaltano. Sia nella letteratura sia nella filosofia i due termini sembrano pertanto intercambiabili. Susanna Tamaro evidenzia però una chiara connotazione morale: si riferisce pertanto all’umiltà come ad una modalità dell’essere della persona e alla modestia come ad una modalità dell’apparire. Quando cerco di capire qualcosa sulle emozioni e sui sentimenti che gli uomini manifestano pubblicamente, spesso mi rivolgo a quei filosofi che hanno analizzato la vita di corte e ne hanno svelato gli intrecci, mostrando le ambivalenze delle virtù e i vantaggi sociali che gli uomini possono ricavarne. Così il moralista francese La Bruyère (XVII sec.) nell’opera “I caratteri” scrive: «Certuni, appagati di sé, in una qualche azione o in qualche opera che è riuscita loro abbastanza bene, e avendo sentito dire che la modestia s’addice ai grandi uomini, osano essere modesti, contraffanno gli esseri semplici e naturali: simili a quegli individui di statura mediocre che si abbassano alle porte temendo di sbattere la testa». Sembra che la modestia esprima una sorta di «contraffazione» dell’umiltà: non autenticità, ma un’astuzia per ottenere un’alta considerazione sociale. La Bruyère ricorda che non può essere certo considerato né sobrio né moderato chi si astiene dal vino e consuma un solo pasto al giorno per mantenere la linea, così come non può essere ritenuto generoso chi aiuta un amico caduto in povertà solo per essere lasciato in pace. Questo significa, secondo l’autore, che «Il movente soltanto stabilisce il merito delle azioni degli uomini, e il disinteresse gli conferisce la perfezione». Ossia è l’intenzione a decretare il valore morale di un’azione. Per questo La Bruyère può affermare che «C’è una falsa modestia che è vanità». In che cosa consiste la vanità della modestia? Proprio nel suo essere “finta”, ossia nell’esibizione ricercata della semplicità, per controllare gli effetti che un certo comportamento ha sugli interlocutori. La modestia può essere considerata allora «una virtù esteriore che regola lo sguardo dell’individuo, l’andatura, le parole, il tono di voce, facendolo agire esteriormente con gli altri come se non fosse vero che per lui essi non contano nulla». La modestia così intesa è pertanto una contraffazione della genuinità, un’imitazione fasulla degli uomini «semplici e naturali» (umili). L’uomo che vuole apparire modesto, dunque, potrebbe non essere né autentico né vero, perché non cerca l’essere (la virtù), ma l’apparire (l’utile). Susanna Tamaro chiede invece alla nipote l’umiltà come costituzione intima, come modalità di stare al mondo. E la riflessione di La Bruyère è certamente valida: mentre la condotta dell’uomo calcolatore è finalizzata a raggiungere il massimo tornaconto individuale, quella dell’uomo costitutivamente umile, in virtù del «disinteresse», è considerata morale, perché rappresenta il modo più schietto di vivere di una persona. L'uomo che si concentrata sul proprio stile di vita è incurante dei benefici o degli svantaggi sociali che potrà ricavare dai propri comportamenti .
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 16 ottobre 2017

Il linguaggio e il pensiero


Caro professore,
Non so bene perché, ma quando una persona conosce più di una lingua essa tende a reagire in modo differente alle situazioni a seconda della cultura o del linguaggio che parla. È possibile che il solo pensare in una data lingua condizioni il pensiero all’interno della cultura e della società ad essa collegate?  L’ipotesi Sapir-Whorf avalla questa teoria. Qual è la sua opinione al riguardo? In che misura e fino a che punto la lingua può influenzare le azioni e la personalità di un soggetto? La prego di farmi conoscere il suo punto di vista. Grazie.
Heidi, 18 anni


Cara Heidi,
Per far comprendere a tutti i lettori il motivo di una domanda così complessa, devo raccontare qualcosa di te. Poiché tuo papà è americano e tua mamma svedese, parli abitualmente sia l’inglese sia lo svedese, e – per qualche ragione che mi sfugge – forse per motivi di amicizia o per il puro piacere di conoscere, hai imparato come prima lingua straniera il giapponese, che ora parli perfettamente, tanto che “chatti” in giapponese con le tue amiche sparse per il mondo. Ora ti trovi in Italia per una nuova esperienza e al Liceo di Cuneo dovrai studiare l’italiano e il francese. La domanda che hai posto è dunque legata al tuo vissuto e alla tua versatilità linguistica che ti permettono di cogliere questi problemi. La domanda è davvero bella ed è vero che i due linguisti e antropologi americani Edward Sapir e Benjamin Whorf  hanno proposto nel secolo scorso una importante teoria a questo proposito. Torniamo alla domanda: usare una grammatica diversa, quindi una struttura diversa, per descrivere una certa situazione, modifica il modo di comprendere quella situazione? La lingua (struttura linguistica) ha la possibilità di influenzare la visione del mondo? Il flusso del pensiero che si incunea in una intelaiatura linguistica piuttosto che in un’altra influenzerà la personalità, le convinzioni e le azioni di una persona? Il linguaggio si limita a narrare il pensiero, a trasportarlo, o strutturandolo lo altera producendo nuovi e inaspettati sensi? Beniamin Lee Whorf, ha scritto: «Il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee; ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida all'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, in differenti grammatiche» (“Linguaggio, pensiero e realtà”, Boringhieri, Torino).  C’è stato un momento in cui questa teoria è stata alla base del relativismo culturale, ossia dell’idea che a ogni latitudine strutture linguistiche diverse potessero modellare i  pensieri in modo così differente, da rendere intraducibili e inconfrontabili i valori di diverse culture. O, come ricorda il sociologo francese Raymond Boudon, poiché «il pensiero è talmente dipendente dalla lingua […] le comunità parlanti lingue diverse non possono affatto comunicare fra di loro» (“Il senso dei valori”, Il Mulino).  È ancora valida oggi questa teoria?  Le tesi di Sapir-Whorf sono confutate dal neuroscienziato cognitivo americano Steven Pinker (“L'istinto del linguaggio”, Mondadori). Egli ritiene che l’identificazione del pensiero con il linguaggio sia «un’assurdità convenzionale». Riferisce ad esempio che tutti abbiamo fatto esperienza di pronunciare o di scrivere una frase, per poi renderci conto che non esprimeva esattamente quello che volevamo dire. Scrive l’autore: «E se abbiamo quell'impressione, ci deve essere qualcosa “che intendevamo dire” che è diverso da quanto abbiamo detto». Sembra, dunque, che sia il pensiero a condizionare il linguaggio e non viceversa. Ma Pinker ricorda anche che quando ascoltiamo una conferenza o leggiamo un libro di solito ricordiamo il succo e non le parole esatte. Egli si chiede allora che cosa sia questo “succo” che ovviamente non è l’insieme dei vocaboli. Se poi i pensieri dipendessero dalle parole sarebbe impossibile creare parole nuove. Esistono poi forme di pensiero non verbale: ricorderai che molti scienziati sono arrivati alla soluzione dei loro problemi per mezzo di rappresentazioni visive: James Watson e Francis Crick scoprirono la doppia elica del DNA grazie alle immagini. Potremmo pensare alla musica: un pensiero che non scorre nel linguaggio verbale ma crea strutture in cui manifestarsi. Ma anche gli scrittori non si lasciano ingabbiare dalla tradizione e infrangono le strutture linguistiche per creare nuove possibilità di espressione. Non è il linguaggio a determinare i valori o i pensieri. Le parole possono essere ambigue, i pensieri che riconoscono le ambivalenze no. Paolo Legrenzi ne “La mente” (Il Mulino) scrive:  «L'idea di base era che i processi cognitivi fossero influenzati dal linguaggio e dal contesto sociale. Si pensava, ad esempio, che persino i lessici dei colori influenzassero la percezione dei colori stessi. Ricerche accurate hanno dimostrato che questa ipotesi è infondata. Linguaggio, percezione, memoria e pensiero condividono meccanismi universali. In sostanza, dal punto di vista del funzionamento di base della mente umana, tutti gli uomini sono molto simili».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 2 ottobre 2017

È giusto essere tristi?

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Caro professore,
quando qualcuno mi chiede di parlare di me e di raccontare qualcosa che per me è importante non posso non parlare della mia infanzia e soprattutto del rapporto che ho sempre avuto con i miei compagni di classe. Dalle elementari fino alla fine delle medie mi sono sempre trovata male in classe. Non riuscivo ad ambientarmi e mi sentivo spesso “diversa”. Questo perché ero spesso lasciata da parte e criticata, insomma, come tanti altri ragazzi anch’io sono stata vittima di bullismo. Per questo non ho ricordi molto positivi dei miei primi anni di scuola, ma non è questo l'argomento di cui voglio parlare in questa lettera, anche perché ora ho trovato una classe fantastica e ho fatto molte amicizie. In questa lettera vorrei concentrarmi sull’argomento della tristezza. Avendo sofferto molto durante la mia infanzia, questo è un argomento che mi sta molto a cuore. Mi sono sempre chiesta: è giusto essere tristi? Mentre nel mondo ci sono milioni di persone che soffrono perché non hanno una casa, non hanno una famiglia o non hanno da mangiare, è giusto per una persona che invece è in salute con una famiglia e un tetto sulla testa essere triste? Abbiamo il diritto di sentirci demoralizzati quando c’è chi è in una situazione peggiore? C’è una tristezza più giusta di un’altra?
Giovanna, 16 anni


Cara Giovanna,
La tristezza è un’emozione di base. Sia che ci affidiamo al film Inside-out con i suoi cinque simpatici protagonisti (gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto) sia agli studiosi Paul Ekman  o Robert Plutchik. Le neuroscienze ci dicono che le emozioni attivano aree diverse del cervello e che ogni emozione ha uno schema caratteristico. Antonio Damasio, in modo più specifico, scrive che «la tristezza attiva costantemente la corteccia prefrontale ventromediale, l'ipotalamo e il tronco encefalico» (“Emozione e coscienza”). Da questo punto di vista non ha senso chiedersi se sia giusto essere tristi, perché la tristezza è una modalità fondamentale con cui il corpo risponde all’ambiente. Seneca aveva perfettamente compreso che «la natura umana non consente che l'animo di qualcuno sia immune dalla tristezza» (“Lettere a Lucilio”). E riteneva importante non cedere frequentemente o in modo eccessivo ad essa. Il filosofo affermava che tutti gli uomini sono toccati dalla tristezza, anche i saggi; ma la differenza tra i saggi e gli uomini comuni consiste nel fatto che i primi non si lasciano abbattere. Perché? Perché «non eliminano le passioni, ma le moderano», scrive il filosofo. E qui è il senso della tua domanda, che è più profonda. Tutti sappiamo che di fronte ad un evento più grave le piccole preoccupazioni spariscono. Per mitigare le passioni è necessario l’intervento della ragione. La ragione, per arginare l’eccesso, introduce la misura. La misura è data da un rapporto: il confronto con le sventure dell’altro dà proporzione alla nostra tristezza e circoscrive il nostro dolore. E ciò che sta dentro un limite può essere contenuto e non ha più la forza di eccedere e di esasperarci. Così la passione triste diventa consapevole e può essere attenuata. Ci sono diverse gradazioni di tristezza: quella che svanisce alla prima battuta simpatica, di fronte allo spirito allegro di un amico. Quella dissolta immediatamente dall’ascolto della musica, dall’attività sportiva, da quella artistica o da un incontro. Ma ci sono tristezze più grandi: di chi ha perso la casa o un famigliare, di chi è ammalato, di chi ha subito un inganno o una malvagità. E c’è una tristezza che si insinua come afflizione permanente e sopprime le altre emozioni indagata da medici, psicologi o psicoterapeuti. Una sorta di umore nero duraturo. La conoscevano bene gli antichi quando usavano i colori per distinguere le malattie e chiamavano “melanocroi” [di colore nero] quelli che avevano “umore nero”. Lo psichiatra Eugenio Borgna ne “Le parole che ci salvano”(Einaudi) riporta una riflessione del teologo Romano Guardini che ci permette tuttavia di cogliere un’altra dimensione della tristezza: «La tristezza è qualcosa di così doloroso, e ci sospinge così profondamente nelle radici della nostra umana esistenza, che non la si può lasciare in balìa degli psichiatri. Se noi discutiamo qui del suo senso, è perché essa non ha a che fare con una questione psicologica, o psicopatologica, ma con una questione spirituale. Noi pensiamo che si abbia a che fare con qualcosa che ci confronta con la profondità della nostra umanità». La tristezza è considerata una tonalità emotiva che rivela all’uomo la propria natura. Permettimi una battuta: come la seppia con il suo “umore nero” riesce a salvarsi e a sfuggire al predatore, così possiamo pensare che la nostra tristezza sia un modo con cui ci difendiamo dall’invasione del mondo, dal tentativo di essere oggetti per gli altri. Possiamo considerarla una forma di sottrazione dal caos della vita, dal tentativo di essere sempre immersi nel suo flusso, connessi agli altri e dipendenti dalle loro aspettative. La separazione non necessariamente è negativa. Aiuta a formare la propria autonomia, a comprendere ciò che vogliamo essere e cosa siamo disposti a sacrificare per questo. Allora sì, c’è una tristezza “giusta”: è quella che ci permette di vagare nei confini smisurati dell’anima dell’uomo e ci consente di salvaguardare il rapporto con la nostra vera natura.
Un caro saluto,
Alberto