Caro professore,
quando qualcuno mi
chiede di parlare di me e di raccontare qualcosa che per me è importante non
posso non parlare della mia infanzia e soprattutto del rapporto che ho sempre
avuto con i miei compagni di classe. Dalle elementari fino alla fine delle
medie mi sono sempre trovata male in classe. Non riuscivo ad ambientarmi e mi
sentivo spesso “diversa”. Questo perché ero spesso lasciata da parte e criticata,
insomma, come tanti altri ragazzi anch’io sono stata vittima di bullismo. Per
questo non ho ricordi molto positivi dei miei primi anni di scuola, ma non è
questo l'argomento di cui voglio parlare in questa lettera, anche perché ora ho
trovato una classe fantastica e ho fatto molte amicizie. In questa lettera
vorrei concentrarmi sull’argomento della tristezza. Avendo sofferto molto
durante la mia infanzia, questo è un argomento che mi sta molto a cuore. Mi
sono sempre chiesta: è giusto essere tristi? Mentre nel mondo ci sono milioni
di persone che soffrono perché non hanno una casa, non hanno una famiglia o non
hanno da mangiare, è giusto per una persona che invece è in salute con una
famiglia e un tetto sulla testa essere triste? Abbiamo il diritto di sentirci
demoralizzati quando c’è chi è in una situazione peggiore? C’è una tristezza
più giusta di un’altra?
Giovanna, 16 anni
Cara Giovanna,
La tristezza è un’emozione di base. Sia che ci affidiamo al
film Inside-out con i suoi cinque simpatici protagonisti (gioia, tristezza,
paura, rabbia e disgusto) sia agli studiosi Paul Ekman o Robert Plutchik. Le neuroscienze ci dicono
che le emozioni attivano aree diverse del cervello e che ogni emozione ha uno
schema caratteristico. Antonio Damasio, in modo più specifico, scrive che «la tristezza attiva costantemente la
corteccia prefrontale ventromediale, l'ipotalamo e il tronco encefalico» (“Emozione e coscienza”). Da questo punto
di vista non ha senso chiedersi se sia giusto essere tristi, perché la
tristezza è una modalità fondamentale con cui il corpo risponde all’ambiente.
Seneca aveva perfettamente compreso che «la
natura umana non consente che l'animo di qualcuno sia immune dalla tristezza»
(“Lettere a Lucilio”). E riteneva
importante non cedere frequentemente o in modo eccessivo ad essa. Il filosofo affermava
che tutti gli uomini sono toccati dalla tristezza, anche i saggi; ma la
differenza tra i saggi e gli uomini comuni consiste nel fatto che i primi non
si lasciano abbattere. Perché? Perché «non
eliminano le passioni, ma le moderano», scrive il filosofo. E qui è il
senso della tua domanda, che è più profonda. Tutti sappiamo che di fronte ad un
evento più grave le piccole preoccupazioni spariscono. Per mitigare le passioni
è necessario l’intervento della ragione. La ragione, per arginare l’eccesso,
introduce la misura. La misura è data da un rapporto: il confronto con le
sventure dell’altro dà proporzione alla nostra tristezza e circoscrive il
nostro dolore. E ciò che sta dentro un limite può essere contenuto e non ha più
la forza di eccedere e di esasperarci. Così la passione triste diventa
consapevole e può essere attenuata. Ci sono diverse gradazioni di tristezza: quella
che svanisce alla prima battuta simpatica, di fronte allo spirito allegro di un
amico. Quella dissolta immediatamente dall’ascolto della musica, dall’attività
sportiva, da quella artistica o da un incontro. Ma ci sono tristezze più
grandi: di chi ha perso la casa o un famigliare, di chi è ammalato, di chi ha
subito un inganno o una malvagità. E c’è una tristezza che si insinua come
afflizione permanente e sopprime le altre emozioni indagata da medici,
psicologi o psicoterapeuti. Una sorta di umore nero duraturo. La conoscevano
bene gli antichi quando usavano i colori per distinguere le malattie e chiamavano
“melanocroi” [di colore nero] quelli che avevano “umore nero”. Lo psichiatra Eugenio
Borgna ne “Le parole che ci salvano”(Einaudi)
riporta una riflessione del teologo Romano Guardini che ci permette tuttavia di
cogliere un’altra dimensione della tristezza: «La tristezza è qualcosa di così doloroso, e ci sospinge così
profondamente nelle radici della nostra umana esistenza, che non la si può
lasciare in balìa degli psichiatri. Se noi discutiamo qui del suo senso, è
perché essa non ha a che fare con una questione psicologica, o psicopatologica,
ma con una questione spirituale. Noi pensiamo che si abbia a che fare con
qualcosa che ci confronta con la profondità della nostra umanità». La
tristezza è considerata una tonalità emotiva che rivela all’uomo la propria
natura. Permettimi una battuta: come la seppia con il suo “umore nero” riesce a
salvarsi e a sfuggire al predatore, così possiamo pensare che la nostra
tristezza sia un modo con cui ci difendiamo dall’invasione del mondo, dal
tentativo di essere oggetti per gli altri. Possiamo considerarla una forma di
sottrazione dal caos della vita, dal tentativo di essere sempre immersi nel suo
flusso, connessi agli altri e dipendenti dalle loro aspettative. La separazione
non necessariamente è negativa. Aiuta a formare la propria autonomia, a
comprendere ciò che vogliamo essere e cosa siamo disposti a sacrificare per
questo. Allora sì, c’è una tristezza “giusta”: è quella che ci permette di vagare
nei confini smisurati dell’anima dell’uomo e ci consente di salvaguardare il rapporto
con la nostra vera natura.
Un caro saluto,
Alberto
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