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Cor-rispondenze

lunedì 2 ottobre 2017

È giusto essere tristi?

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Caro professore,
quando qualcuno mi chiede di parlare di me e di raccontare qualcosa che per me è importante non posso non parlare della mia infanzia e soprattutto del rapporto che ho sempre avuto con i miei compagni di classe. Dalle elementari fino alla fine delle medie mi sono sempre trovata male in classe. Non riuscivo ad ambientarmi e mi sentivo spesso “diversa”. Questo perché ero spesso lasciata da parte e criticata, insomma, come tanti altri ragazzi anch’io sono stata vittima di bullismo. Per questo non ho ricordi molto positivi dei miei primi anni di scuola, ma non è questo l'argomento di cui voglio parlare in questa lettera, anche perché ora ho trovato una classe fantastica e ho fatto molte amicizie. In questa lettera vorrei concentrarmi sull’argomento della tristezza. Avendo sofferto molto durante la mia infanzia, questo è un argomento che mi sta molto a cuore. Mi sono sempre chiesta: è giusto essere tristi? Mentre nel mondo ci sono milioni di persone che soffrono perché non hanno una casa, non hanno una famiglia o non hanno da mangiare, è giusto per una persona che invece è in salute con una famiglia e un tetto sulla testa essere triste? Abbiamo il diritto di sentirci demoralizzati quando c’è chi è in una situazione peggiore? C’è una tristezza più giusta di un’altra?
Giovanna, 16 anni


Cara Giovanna,
La tristezza è un’emozione di base. Sia che ci affidiamo al film Inside-out con i suoi cinque simpatici protagonisti (gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto) sia agli studiosi Paul Ekman  o Robert Plutchik. Le neuroscienze ci dicono che le emozioni attivano aree diverse del cervello e che ogni emozione ha uno schema caratteristico. Antonio Damasio, in modo più specifico, scrive che «la tristezza attiva costantemente la corteccia prefrontale ventromediale, l'ipotalamo e il tronco encefalico» (“Emozione e coscienza”). Da questo punto di vista non ha senso chiedersi se sia giusto essere tristi, perché la tristezza è una modalità fondamentale con cui il corpo risponde all’ambiente. Seneca aveva perfettamente compreso che «la natura umana non consente che l'animo di qualcuno sia immune dalla tristezza» (“Lettere a Lucilio”). E riteneva importante non cedere frequentemente o in modo eccessivo ad essa. Il filosofo affermava che tutti gli uomini sono toccati dalla tristezza, anche i saggi; ma la differenza tra i saggi e gli uomini comuni consiste nel fatto che i primi non si lasciano abbattere. Perché? Perché «non eliminano le passioni, ma le moderano», scrive il filosofo. E qui è il senso della tua domanda, che è più profonda. Tutti sappiamo che di fronte ad un evento più grave le piccole preoccupazioni spariscono. Per mitigare le passioni è necessario l’intervento della ragione. La ragione, per arginare l’eccesso, introduce la misura. La misura è data da un rapporto: il confronto con le sventure dell’altro dà proporzione alla nostra tristezza e circoscrive il nostro dolore. E ciò che sta dentro un limite può essere contenuto e non ha più la forza di eccedere e di esasperarci. Così la passione triste diventa consapevole e può essere attenuata. Ci sono diverse gradazioni di tristezza: quella che svanisce alla prima battuta simpatica, di fronte allo spirito allegro di un amico. Quella dissolta immediatamente dall’ascolto della musica, dall’attività sportiva, da quella artistica o da un incontro. Ma ci sono tristezze più grandi: di chi ha perso la casa o un famigliare, di chi è ammalato, di chi ha subito un inganno o una malvagità. E c’è una tristezza che si insinua come afflizione permanente e sopprime le altre emozioni indagata da medici, psicologi o psicoterapeuti. Una sorta di umore nero duraturo. La conoscevano bene gli antichi quando usavano i colori per distinguere le malattie e chiamavano “melanocroi” [di colore nero] quelli che avevano “umore nero”. Lo psichiatra Eugenio Borgna ne “Le parole che ci salvano”(Einaudi) riporta una riflessione del teologo Romano Guardini che ci permette tuttavia di cogliere un’altra dimensione della tristezza: «La tristezza è qualcosa di così doloroso, e ci sospinge così profondamente nelle radici della nostra umana esistenza, che non la si può lasciare in balìa degli psichiatri. Se noi discutiamo qui del suo senso, è perché essa non ha a che fare con una questione psicologica, o psicopatologica, ma con una questione spirituale. Noi pensiamo che si abbia a che fare con qualcosa che ci confronta con la profondità della nostra umanità». La tristezza è considerata una tonalità emotiva che rivela all’uomo la propria natura. Permettimi una battuta: come la seppia con il suo “umore nero” riesce a salvarsi e a sfuggire al predatore, così possiamo pensare che la nostra tristezza sia un modo con cui ci difendiamo dall’invasione del mondo, dal tentativo di essere oggetti per gli altri. Possiamo considerarla una forma di sottrazione dal caos della vita, dal tentativo di essere sempre immersi nel suo flusso, connessi agli altri e dipendenti dalle loro aspettative. La separazione non necessariamente è negativa. Aiuta a formare la propria autonomia, a comprendere ciò che vogliamo essere e cosa siamo disposti a sacrificare per questo. Allora sì, c’è una tristezza “giusta”: è quella che ci permette di vagare nei confini smisurati dell’anima dell’uomo e ci consente di salvaguardare il rapporto con la nostra vera natura.
Un caro saluto,
Alberto

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