Caro
professore,
Non so bene perché, ma quando una persona
conosce più di una lingua essa tende a reagire in modo differente alle
situazioni a seconda della cultura o del linguaggio che parla. È possibile che
il solo pensare in una data lingua condizioni il pensiero all’interno della
cultura e della società ad essa collegate? L’ipotesi Sapir-Whorf avalla questa teoria.
Qual è la sua opinione al riguardo? In che misura e fino a che punto la lingua
può influenzare le azioni e la personalità di un soggetto? La prego di farmi
conoscere il suo punto di vista. Grazie.
Heidi, 18 anni
Cara Heidi,
Per far
comprendere a tutti i lettori il motivo di una domanda così complessa, devo
raccontare qualcosa di te. Poiché tuo papà è americano e tua mamma svedese, parli
abitualmente sia l’inglese sia lo svedese, e – per qualche ragione che mi
sfugge – forse per motivi di amicizia o per il puro piacere di conoscere, hai
imparato come prima lingua straniera il giapponese, che ora parli perfettamente,
tanto che “chatti” in giapponese con
le tue amiche sparse per il mondo. Ora ti trovi in Italia per una nuova
esperienza e al Liceo di Cuneo dovrai studiare l’italiano e il francese. La
domanda che hai posto è dunque legata al tuo vissuto e alla tua versatilità
linguistica che ti permettono di cogliere questi problemi. La domanda è davvero
bella ed è vero che i due linguisti e antropologi americani Edward Sapir e Benjamin
Whorf hanno proposto nel secolo scorso
una importante teoria a questo proposito. Torniamo alla domanda: usare una
grammatica diversa, quindi una struttura diversa, per descrivere una certa situazione, modifica il modo di comprendere quella situazione? La lingua (struttura
linguistica) ha la possibilità di influenzare la visione del mondo? Il flusso
del pensiero che si incunea in una intelaiatura linguistica piuttosto che in
un’altra influenzerà la personalità, le convinzioni e le azioni di una persona?
Il linguaggio si limita a narrare il pensiero, a trasportarlo, o strutturandolo
lo altera producendo nuovi e inaspettati sensi? Beniamin Lee Whorf, ha scritto:
«Il sistema linguistico di sfondo (in
altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di
riproduzione per esprimere idee; ma esso stesso dà forma alle idee, è il
programma e la guida all'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle
sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa. La
formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale
nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in
misura maggiore o minore, in differenti grammatiche» (“Linguaggio, pensiero e realtà”, Boringhieri, Torino). C’è stato un momento in cui questa teoria è
stata alla base del relativismo culturale, ossia dell’idea che a ogni latitudine
strutture linguistiche diverse potessero modellare i pensieri in modo così differente, da rendere
intraducibili e inconfrontabili i valori di diverse culture. O, come ricorda il
sociologo francese Raymond Boudon, poiché «il
pensiero è talmente dipendente dalla lingua […] le comunità parlanti lingue
diverse non possono affatto comunicare fra di loro» (“Il senso dei valori”, Il Mulino).
È ancora valida oggi questa teoria?
Le tesi di Sapir-Whorf sono confutate dal neuroscienziato cognitivo americano
Steven Pinker (“L'istinto del linguaggio”,
Mondadori). Egli ritiene che l’identificazione del pensiero con il linguaggio sia
«un’assurdità convenzionale». Riferisce
ad esempio che tutti abbiamo fatto esperienza di pronunciare o di scrivere una
frase, per poi renderci conto che non esprimeva esattamente quello che volevamo
dire. Scrive l’autore: «E se abbiamo
quell'impressione, ci deve essere qualcosa “che intendevamo dire” che è diverso
da quanto abbiamo detto». Sembra, dunque, che sia il pensiero a
condizionare il linguaggio e non viceversa. Ma Pinker ricorda anche che quando
ascoltiamo una conferenza o leggiamo un libro di solito ricordiamo il succo e
non le parole esatte. Egli si chiede allora che cosa sia questo “succo” che ovviamente
non è l’insieme dei vocaboli. Se poi i pensieri dipendessero dalle parole
sarebbe impossibile creare parole nuove. Esistono poi forme di pensiero non
verbale: ricorderai che molti scienziati sono arrivati alla soluzione dei loro problemi per mezzo di rappresentazioni visive: James Watson e Francis Crick scoprirono la doppia
elica del DNA grazie alle immagini. Potremmo pensare alla musica: un pensiero
che non scorre nel linguaggio verbale ma crea strutture in cui manifestarsi. Ma
anche gli scrittori non si lasciano ingabbiare dalla tradizione e infrangono le
strutture linguistiche per creare nuove possibilità di espressione. Non è il
linguaggio a determinare i valori o i pensieri. Le parole possono essere
ambigue, i pensieri che riconoscono le ambivalenze no. Paolo Legrenzi ne “La mente” (Il Mulino) scrive: «L'idea
di base era che i processi cognitivi fossero influenzati dal linguaggio e dal
contesto sociale. Si pensava, ad esempio, che persino i lessici dei colori
influenzassero la percezione dei colori stessi. Ricerche accurate hanno
dimostrato che questa ipotesi è infondata. Linguaggio, percezione, memoria e
pensiero condividono meccanismi universali. In sostanza, dal punto di vista del
funzionamento di base della mente umana, tutti gli uomini sono molto simili».
Un caro saluto,
Alberto
Nessun commento:
Posta un commento