Caro professore,
La mia famiglia, circa un anno e mezzo fa, ha dovuto
affrontare un grave problema. Mia mamma in seguito ad un’operazione si è
ritrovata di fronte ad una delle più gravi malattie del nostro secolo: il
cancro. Al contrario di quanto fa la maggior parte della gente, mia mamma
invece di abbattersi e di piangere su se stessa ha tirato fuori una grande
(apparente, dal mio punto di vista) serenità; forza, coraggio e voglia di
vivere. Grazie a ciò abbiamo passato tre operazioni e mesi e mesi di
chemioterapia in maniera assolutamente normale. La domanda che mi pongo adesso
è: perché voglio portare all'esame un tema così profondo e difficile e quindi
ricordare questo momento da dimenticare anziché lasciare tutto alle spalle? La
ringrazio.
Elisabetta, 19 anni
Cara Elisabetta,
Quando all’avvio dell’anno scolastico mi hai parlato del tuo
desiderio di fare una tesina sui tumori e mi hai mostrato il libro di Umberto
Veronesi (“L’uomo con il camice bianco”,
Rizzoli 2009) che tenevi tra le mani, conoscendo l’esperienza sconvolgente che
stavi attraversando ho cercato di dissuaderti dalla scelta della tematica e di
orientarti su una materia diversa, che potesse anche per poco allontanare i
tuoi pensieri da un vissuto così amaro. Pensavo che una temporanea rimozione
fosse un rimedio al dolore. Ma tu hai deciso di affrontare la malattia, e
l’unico modo efficace di far fronte ad essa è stato quello di guardarla negli
occhi, di comprenderne le modalità di insorgenza e l’evoluzione. La conoscenza
in fondo diminuisce l’angoscia, perché riduce la brutalità di ciò che emerge
inaspettato. Se l’imprevisto diventa in qualche modo pre-vedibile, ossia visibile
anticipatamente, è possibile mettere in atto contromisure adeguate sia nei
pensieri sia nelle azioni. All’inizio pensavo che un’eccessiva prossimità alla
sofferenza fosse una conseguenza della debolezza psicofisica in cui ci veniamo
a trovare quando siamo colpiti dall’angoscia, ma dimenticavo che avvicinarsi ad
essa può significare esattamente l’opposto: avere sviluppato una forza di
reazione per difendere la vita e la sua qualità. Credo che il tuo atteggiamento
sia dunque profondamente maturo e saggio, almeno per due ragioni: perché
conoscere è un modo per misurarsi con il male e per ostacolarlo, e perché
conoscere è spesso la premessa per amare. Solo chi comprende il male che lo
affligge è in grado di affrontarlo in modo razionale e di opporsi ad esso; e
solo chi ha dimestichezza con una nuova condizione della vita può camminare
accanto all’ammalato. Interessarsi al problema è segno di amore, perché
nell’attenzione e nella premura si dimostra l’attaccamento alla persona e ci si
unisce ad essa per combattere il male. La tua scelta, dunque, è estremamente
coraggiosa. Il filosofo italiano Salvatore Natoli mi ha ricordato che il
coraggio è una sofferenza che si coniuga con una forza e che spesso amore e
dolore oscillano uno nell’altro. Così scrive l’autore: “Il coraggio somiglia alla malattia d'amore, come follia dolce e
dolorosa: ad ogni modo, è una sofferenza che si coniuga con la forza.”[…] “molte
volte amore e dolore trapassano l'uno nell'altro: in fondo, si regge nel dolore
perché c'è profondo amore, e si soffre nell'amore perché si è esposti alla
perdita e così al dolore”. E qual è la virtù che si sviluppa nel dolore?
Natoli scrive che “la virtù consiste nel
commisurarsi alla necessità e nel tenervi testa”. […] Tener testa al dolore è virtù, poiché saper soffrire equivale alla
medietà tra disperazione e illusione. Né perire con il proprio male, né
rimuoverlo fino al punto da lasciarsi ingannare: nell'un caso e nell'altro si
ha a che fare con un perdersi, poiché si abdica alla propria identità”. La preparazione consente dunque di
avvicinarsi al male. Per reggerlo bisogna però aver guadagnato una “consuetudine positiva con esso”, una sorta
di prossimità: per questo conoscenza e amore sono gli strumenti adeguati per
non avvilirsi e per vivere pienamente. Aristotele diceva che il coraggio è la
via giusta tra i due estremi: la temerarietà e la viltà. “Chi fugge e teme ogni cosa e nulla affronta diviene timido, chi invece
non teme proprio nulla, ma va contro ogni cosa diviene temerario”. Il
temerario è l’incosciente, il dissennato, colui che mette a rischio inutilmente
la propria vita; il vile è colui che rinuncia e poiché è pauroso di tutto è
codardo e debole. Ma l’eccesso e il difetto rovinano le persone, la virtù
invece rappresenta il giusto rapporto che si dovrebbe instaurare con gli
eventi: così il coraggio e la forza d’animo diventano strumenti indispensabili
per affrontare le difficoltà. Infatti, scrive Aristotele, “abituandoci a disprezzare i pericoli e ad affrontarli, diventiamo
coraggiosi, e soprattutto quando siamo divenuti tali siamo in grado di
sopportare i pericoli.” La tua audacia consiste nel voler affrontare il male,
pur consapevole che è rischioso addentrarsi nei meandri della sofferenza e
della malattia. Ma l’abitudine ad esaminare gli ostacoli rende risoluti e in
grado di sovrastare i timori. La persona impulsiva non è coraggiosa e neppure è
coraggioso chi fugge. Coraggioso è chi ha la forza di sostenere la vita,
perché, come dice il filosofo: “l’ardire
è proprio di chi ha speranza” (“Etica
nicomachea”). E dietro quella speranza c’è tutto il tuo amore.
Un caro saluto,
Alberto