Caro Professore,
Siamo una generazione
che vive nelle tecnologie, nelle infinite possibilità che le nuove
telecomunicazioni ci offrono e nelle comodità che ogni giorno ci garantiscono. Eppure
siamo alla disperata ricerca di elementi del passato. Pezzo per pezzo, stiamo
ritirando fuori la storia. Piccoli elementi di un’epoca che non ci appartiene.
Abbiamo macchine fotografiche ultramoderne, ma preferiamo una vecchia polaroid.
Abbiamo lettori cd ed MP3 o semplicemente il telefono, ma il vecchio vinile sta
tornando. Ogni giorno nascono nuovi stili e modelli nel campo della moda, ma
indossare qualcosa di vintage oggi è un tocco immancabile e alla moda. È come
se in qualsiasi modo stessimo cercando di mantenere vivo ciò che è morto da
molto tempo oramai. E non è tutto. Sta serpeggiando sempre più frequentemente
tra gli adolescenti il desiderio di essere nati e aver vissuto in anni
antecedenti alla propria nascita. Perché l'uomo non riesce mai lasciarsi il
passato alle spalle, neanche quello non vissuto da lui in persona e lo desidera
anche se potrebbe includere aspetti negativi? In fondo il ‘900 è stato segnato
da ben due guerre mondiali che hanno stravolto e distrutto il mondo. Non penso
che qualcuno possa davvero desiderare di voler vivere gli orrori della guerra. È
una frase comune "devi imparare a lasciarti persone e avvenimenti alle
spalle", eppure né come individui singoli, né come collettività riusciamo
mai completamente in questa impresa.
Eleonora 3ª alfa
Cara Eleonora,
Non credo che sottoscriveresti facilmente il verso del
rivoluzionario francese Eugène Pottier ne L’Internazionale
ottocentesca che recita: «del passato facciamo
tabula rasa» («Du passé faisons table
rase»), ma certamente avverto nelle tue parole una sorta di fastidio per un
incomodo di cui sarebbe meglio liberarsi. Penso invece che del passato abbiamo
bisogno e proverò a spiegarti perché. Parto da una riflessione personale. Del
futuro so poco: i miei maestri non sono lì, sono altrove. Buona parte del futuro
è radura, mentre il mio passato è ricco, sia quello soggettivo sia quello
culturale in cui sono inserito. Anch’io guardo al futuro, ma sono un po’ miope
e l’orizzonte che intravedo è breve; allora spesso interrogo il passato, che
non è popolato da tirannosauri e attrezzi inefficienti, ma da persone, alcune
delle quali continuano ad orientare la mia vita. Sono affezionato e grato a
queste relazioni, tanto che alcune le porterò con me, in ogni spazio
che dovrò abitare. Nel passato ci sono i miei affetti, le persone
significative, il loro vissuto e il loro modo di guardare la vita. Soprattutto un
certo modo di stare al mondo, che nessun futuro mi lascia intravedere. Non ho
testimoni della mia storia nel futuro, li ho dietro di me, qualcuno accanto. E
voglio assumere queste relazioni per sentirmi umano. È un bisogno di storia
personale e anche di storia collettiva. Quando leggo le lettere che i giovani della
Grande Guerra inviavano al re e nelle loro parole chiare e angosciose gli
spiegavano cos’era veramente la
guerra e gli chiedevano ragione della loro permanenza in trincea (Renato Monteleone,
"Lettere al Re", Editori
Riuniti, Roma, 1973), leggo di vite sventurate e falcidiate, ascolto le
speranze, la rabbia e la delusione di ragazzi a cui la vita è stata rubata. Mi sento
un privilegiato, un sopravvissuto, un uomo che abita già un futuro che molti
non potranno vivere e nemmeno immaginare. Ascoltando quel dolore, comprendo che
cosa ho scampato. Tzvetan Todorov è un filosofo bulgaro recentemente scomparso.
Parlando dei regimi totalitari ha affermato che «questi regimi non sono arrivati da un altro pianeta, sono nati tra noi,
a partire da pratiche che non sono estranee al nostro modo di agire». Il
passato, allora, non è così lontano. E Todorov scrive queste parole in un libro
dal titolo significativo: “Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in
loro. Saggi 1938-2008”. Vivono in noi, perché ognuno di noi è memoria di
ciò che ha visto e appreso, e noi viviamo in loro perché la nostra vita è una
relazione con altre esistenze che ci aiutano a pensare e a comprendere il presente.
La verità della vita è sempre più ampia delle nostre semplificazioni. Il
filologo Ivano Dionigi ne “Il presente
non basta. La lezione del latino” si chiede: «Come mai ci ostiniamo a credere che il presente si riduca alla novità e
che la novità esaurisca la verità?». Egli ricorda pertanto l’invito di san
Bernardino da Siena a frequentare i classici: «va’, leggi i loro libri, qual più ti piace; e parlerai con loro, ed
eglino parleranno teco; udirannoti e tu udirai loro» (Quaresimale del 1425).
Perché c’è un ritorno al vintage? Non credo ci sia una sacralizzazione del passato
tout court, non veneriamo il passato
in quanto tale o perché nostalgici di ciò che non c’è più. Forse vogliamo solo
uscire dall’ordinario per scoprire ciò che non è convenzionale, vogliamo allontanarci
da ciò che è insignificante o già obsoleto, per cogliere ciò che ha avuto
significato per altre generazioni. O forse perché il nuovo sta anche nel
passato come tratto caratteristico di ciò che non abbiamo né visto né vissuto. Nessun
passato deve tiranneggiare sul presente, ma la memoria è importante perché spesso
è un rimedio al male e ci dà anche la misura di ciò che possediamo. E forse ha
ragione Todorov quando scrive che «Il
passato non chiede soltanto di essere conosciuto con precisione, contiene anche
una lezione per il presente – perché il male non è mai unicamente dietro di noi».
Un caro saluto,
Alberto
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