Caro professore,
Quella che sto per
porle può sembrare una domanda banale, ma, la prego, cerchi di non giudicarla
immediatamente così. Fin da quando me la sono posta, all'incirca due anni fa,
ho cercato una soluzione e alla fine penso di averla trovata, ma immagino che essa
sia solo una piccola parte della verità. Proprio per questo credo che non sia
saggio rivelarla, anche perché temo di poterla influenzare con le mie idee e
voglio lasciarle carta bianca. Non mi dilungo oltre e arrivo subito al punto. Cosa
ci fa capire di essere vivi? Come possiamo renderci conto che la realtà che ci
circonda è vera, che noi siamo realmente qui e che tutto questo non è solo uno strano
sogno? La ringrazio per l'attenzione. P.S. Tutti i possibili riferimenti a Matrix sono puramente casuali,
Greta, 3 alfa
Cara Greta,
Potremmo chiederci insieme a Cartesio, nella prima delle Meditazioni metafisiche (1641): quante
volte abbiamo creduto di essere seduti presso il fuoco – il caminetto – mentre
invece eravamo sotto le coperte? Talvolta, infatti, non è facile distinguere
tra la veglia e il sonno. Ed è possibile che ci venga in mente di non vivere in
un mondo reale. Se un tempo ci si poteva chiedere se il mondo era frutto di un
sogno (ad es. La vita è sogno,
Calderon de la Barca, 1635) o di una rappresentazione (Schopenhauer), ma la
concretezza e le asprezze della vita riportavano gli uomini con i piedi per
terra, oggi il confine tra reale e virtuale si è affievolito. Così, possiamo
anche temere di vivere effettivamente in mondi fittizi, soprattutto se ci
perdiamo tra social, videogiochi dalla grafica realistica ed effetti sonori
iperrealistici. Una sempre maggiore interazione con il virtuale sappiamo che
può persino determinare patologie da dipendenza, come perdita di emozioni e
dispercezione della realtà. E con ogni probabilità il legame tra questi due
aspetti sarà in futuro ancora più stretto. Il dubbio è certamente giustificato;
ma tu sei in buona compagnia, perché anche Cartesio diceva che il dubbio era
legittimo e non per superficialità, ma per «ragioni
valide e meditate». Matrix ha persino sostenuto che la realtà potrebbe
essere nient’altro che un mondo virtuale elaborato dal computer. Dice Morpheus «Che vuol dire reale? Dammi una definizione
di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo
odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici
interpretati dal cervello». L’idea non è nuova. Ricorda l’idea del cervello
in una vasca di Hilary Putnam, ripresa da un racconto dello scienziato
cognitivo Daniel Dennet. Si tratta di un esperimento mentale: scienziati
malvagi hanno rimosso il cervello da un corpo mentre dormiva e lo hanno posto
in un liquido di mantenimento in una vasca. Stimolato con elettrodi, il
cervello crede di vivere veramente la vita reale e di essere impegnato nelle
sue normali attività. Alcuni hanno sostenuto che in tale situazione il cervello
non sarebbe in grado di comprendere se la realtà in cui vive è vera oppure no.
Penso ora che la tua domanda possa imboccare tre strade: la nostra facoltà
conoscitiva è adeguata per conoscere il mondo? (un problema gnoseologico); quanti
sono i piani della realtà? Materiale, immateriale, altro? (un problema
ontologico); oppure: come posso sentirmi vivo e diventare protagonista della
mia vita? (un problema esistenziale). Poiché sei molto giovane, non voglio
sottovalutare questo aspetto. Penso che una persona possa non sentirsi viva o per
eccesso di vissuto doloroso o per una sorta di torpore. Elisa
Springer ne Il silenzio dei vivi
scrive: «Ho abitato ad Auschwitz, Bergen-Belsen,
Terezìn, ho conosciuto le miserie e l'orrore di uomini senza anima, soldati
senza cuore che hanno carpito la nostra libertà, senza darci né il tempo, né il
modo di difenderla, confinandoci in un mondo di schiavitù, di odio, in cui era impossibile
ritrovarsi esseri umani». E quando per circostanze occasionali e
imprevedibili riesce ad uscire dal lager di Bergen-Belsen si chiede: «Ce l'avrei mai fatta a rimanere viva tra i
vivi?». L’eccesso di dolore e lo stordimento della sofferenza possono
portare a non sentirsi più vivi in mezzo alle vite altrui, spesso ignare di
vissuti penosi o di storie assurde e inaudite. I filosofi hanno spesso detto
che per sentirsi vivi occorre avere chiara coscienza della propria condizione. Jostein
Gaarder ne “Il mondo di Sofia” (1991)
ha messo in bocca alla protagonista queste parole: «Non è possibile sentirsi vivi senza essere consapevoli che si deve
morire, pensò. Analogamente è impossibile riflettere sul fatto che si deve
morire senza pensare al contempo che vivere è una cosa meravigliosamente strana».
Non ti spaventare, la riflessione sul tempo della vita è fondamentale. È a
partire dal nostro limite nel tempo che possiamo uscire dal torpore.
E se diventiamo consapevoli di questo confine, forse riusciamo a orientare la
nostra vita, a smuoverla dall’apatia, dal sonno. Allora è fondamentale sentirsi
ingaggiati, ossia arruolati dal mondo, interpellati dalla realtà e darsi degli
scopi, cercare di impegnarsi in attività e relazioni. Quando si scende
nell’umano e si viene coinvolti nelle relazioni, svanisce ogni dubbio su cosa
significhi sentirsi vivi. E come direbbe Cartesio, non si tratta di un
ragionamento che può essere messo in dubbio, si tratta di un’intuizione
immediata. Anticipa ogni logica e aiuta a trovare un senso alle azioni della
quotidianità.
Un caro saluto,
Alberto
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