Caro professore,
Traducendo una
versione di latino, ho incontrato un filosofo (Aristippo) che diceva di
investire in beni duraturi. Ecco, io vorrei chiederle quali sono questi beni.
Perché se ci pensiamo quasi tutto muore. Allora la risposta dovrebbe essere: la
religione e la vita eterna? Quindi in questo caso bisognerebbe orientare la
vita ad un fine religioso? O forse a qualcosa di più materiale? O piuttosto la
conoscenza? In effetti diverse persone orientano la decisione in campi diversi.
Luca, Ia
Caro Luca,
I Greci e tutti i popoli che solcavano i mari avevano ben
chiara l’esperienza del naufragio: la possibilità improvvisa di perdere gli averi
sistemati sulla nave e – in un attimo – la vita stessa. L’inabissarsi di un’imbarcazione
sovraccarica di merci e di uomini ha sempre avuto un forte impatto
sull’immaginazione. Coloro che sono stati ripescati da navi di passaggio o si
sono salvati da soli sono tornati trasfigurati. E hanno riconsiderato le loro
priorità: ciò che si può abbandonare senza perdere irrimediabilmente se stessi.
Per questo il naufragio è metafora della vita, e come ci ha insegnato il
filosofo tedesco Hans Blumenberg è soprattutto «esperienza iniziale della filosofia» (Naufragio con spettatore). Sì, perché i filosofi hanno interpretato
metaforicamente la calamità materiale come il venir meno di certezze
filosofiche e morali a cui l’uomo si affida; verità o semplici persuasioni screditate
dall’esperienza o scardinate dalla logica che si attenuano sino a svaporare del
tutto. Ogni filosofo, in fondo, costruisce sulle macerie delle teorie
precedenti. Così, anche Aristippo (Cirene, 435 a.C. – Lipari, 366 a.C.), discepolo
di Socrate, è stato convolto nell’esperienza del naufragio. Fondatore della
scuola cirenaica, egli non godeva di buona fama presso gli altri discepoli di
Socrate. Forse troppo attaccato al denaro e alla vita agiata, era ormai un po’
troppo lontano dall’insegnamento del maestro. Vitruvio racconta che, giunto
dopo un naufragio sulla spiaggia di Rodi e vedendo figure geometriche composte
sulla sabbia, egli abbia gridato ai compagni: «Dobbiamo sperare bene, trovo infatti tracce di esseri umani». Forse
qui è iniziata la sua conversione. Si è chiarito la differenza tra ciò che era
necessario e ciò che era superfluo. Pare che a Rodi abbia insegnato la propria
filosofia e abbia ricevuto lodi e doni in cambio della sua sapienza. Quando i
suoi compagni vollero tornare indietro, egli tuttavia preferì rimanere nell’isola.
E a chi gli chiedeva che cosa avrebbero dovuto raccontare in patria, Aristippo
rispose: «Bisogna preparare i veri beni;
i veri beni nuotano in salvo anche dopo un naufragio». Cosa sono i veri
beni allora? Per il filosofo di Cirene, la saggezza e la filosofia. Perché
sciagure, guerre e naufragi non possono nuocere a chi porta con sé saggezza e
ragione, conoscenza e capacità di riflessione. L’idea della ricerca di un bene
stabile è frequente nella filosofia; in fondo i filosofi non si fermano a ciò
che appare, ma si propongono di comprendere le strutture che soggiacciono ai
cambiamenti. Seneca afferma che «i veri
beni sono quelli che dà la ragione, saldi e perpetui, che non possono venir
meno e neppure decrescere o diminuire» (Lettere
a Lucilio). E dice che «a ciascuno
toccano interi» e non in parte. Egli racconta infatti che in un banchetto
pubblico – una sorta di festa del paese –, si è soliti distribuire la carne a
pezzetti e prendere con le mani altre vivande e dunque dividere in parti, «ma questi beni indivisibili, la pace e la
libertà, appartengono interi tanto ai singoli quanto a tutti gli uomini». Tra
i tanti filosofi che hanno cercato beni stabili, quello che suscita molta ammirazione
è Baruch Spinoza. Nel De intellectus
emendatione, un trattato che indica come si può purificare (emendare) l’intelletto
dagli errori, Spinoza afferma di essere alla ricerca di un vero bene («verum bonum») e invita ad abbandonare
quei «beni che per lo più si incontrano
nella vita» – ricchezze, onori, piacere – e a cercare un bene che possa
colmare l’animo «di una gioia assolutamente
priva di tristezza». Questa gioia per lui era Dio. In questo caso non il
Dio cristiano, ma la struttura razionale del mondo. Però anche la religione
cristiana invita a cercare beni stabili. Matteo riporta l’insegnamento di Gesù,
il quale dice: «Non accumulate ricchezze
qui sulla terra, dove possono essere rovinate dai tarli e dalla ruggine o
rubate dai ladri. Accumulatele in cielo, invece, dove non perderanno mai il
loro valore e sono al sicuro dai ladri» (Matteo 6, 19-20). Come vedi, i
beni durevoli possono essere di varia natura: culturale e religiosa. Ma come è
possibile conservare qualcosa di stabile nella società contemporanea definita
dal sociologo Zygmunt Bauman “liquida”, in quanto «le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro
modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure»? Se tutto
cambia forma molto in fretta, è ancora possibile ancorarsi a qualcosa di
stabile? Penso di sì. Un bene duraturo è ciò che orienta la vita. Il valore
principale a cui facciamo riferimento per giudicare il caos degli eventi. È
poiché è la narrazione in cui collochiamo la nostra esperienza per comprenderla,
cultura e religione possono fornire entrambe una certa stabilità.
Un caro saluto,
Alberto
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