lunedì 30 dicembre 2019
libri consigliati
Andrea Marcolongo, Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi, Mondadori, 2019.
Un libro bellissimo! Da leggere assolutamente.
E dopo esservi innamorati di questo libro, potete continuare la meraviglia con
Andrea Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza, 2018.
e poi con....
Andrea Marcolongo, La misura eroica, Mondadori, 2018.
Meravigliosi e utili per amare la filosofia sono i libri di Mauro Bonazzi:
Mauro Bonazzi, Piccola filosofia per tempi agitati, Ponte alle Grazie, 2019.
Mauro Bonazzi, Processo a Socrate, Laterza, 2018.
Mauro Bonazzi, Con gli occhi dei Greci, Carocci, 2016.
lunedì 16 dicembre 2019
Rinascere
Caro professore,
Alle medie ho vissuto uno dei periodi più brutti della mia vita: avevo pochi amici e nessuno mi considerava. Ero diventata come un fantasma, ho iniziato a chiudermi in me stessa e a sperare che il tempo passasse veloce. Non vedevo l’ora di scappare dai miei compagni! Alla fine è arrivato giugno e dopo tre mesi ho ricominciato la scuola. Con la nuova classe mi sono trovata benissimo, perché avevamo interessi comuni e nessuno era considerato uno scemo perché amava studiare (cosa successa invece alle medie). Dopo poche settimane ormai potevo dire che ero rinata, non ero più quella di una volta. Questo mi ha portato a riflettere e a pensare che quindi, a volte, si può sul serio rinascere?
Matilde, 16 anni
Alle medie ho vissuto uno dei periodi più brutti della mia vita: avevo pochi amici e nessuno mi considerava. Ero diventata come un fantasma, ho iniziato a chiudermi in me stessa e a sperare che il tempo passasse veloce. Non vedevo l’ora di scappare dai miei compagni! Alla fine è arrivato giugno e dopo tre mesi ho ricominciato la scuola. Con la nuova classe mi sono trovata benissimo, perché avevamo interessi comuni e nessuno era considerato uno scemo perché amava studiare (cosa successa invece alle medie). Dopo poche settimane ormai potevo dire che ero rinata, non ero più quella di una volta. Questo mi ha portato a riflettere e a pensare che quindi, a volte, si può sul serio rinascere?
Matilde, 16 anni
Cara Matilde,
Due gesti di due grandi filosofi greci, Socrate e Platone,
sono secondo me legati alla nascita e alla rinascita. Come è noto, la mamma di
Socrate si chiamava Fenarete e di professione faceva la levatrice, ossia
l’ostetrica. Assisteva le giovani donne in quel momento delicato e bellissimo in
cui un bambino viene al mondo. Nel Teeteto
di Platone, Socrate paragona la propria attività a quella
della madre, perché sente che il proprio compito è quello di assistere non più
le donne, ma gli uomini in un altro tipo di parto, altrettanto complesso,
quello di dare alla luce idee vere
(la nascita). Egli riteneva tale mansione più ardua di quella della madre,
perché se dal parto naturale nascono sempre bambini in carne e ossa (veri), dalle
teste degli uomini si originano indifferentemente menzogne e verità. Il compito
del filosofo era pertanto duplice: aiutare gli uomini a elaborare delle verità
e favorire nei giovani la capacità di distinguere tra impostura e autenticità
(la rinascita). Platone mette pertanto in bocca a Socrate queste parole: «E il pregio più grande in questa nostra
arte, [è] mettere alla prova, per
quanto è possibile in ogni modo, se il pensiero del giovane partorisce immagini
o menzogne o invece un qualcosa di fertile e di vero». Perché leggendo la
tua lettera ho pensato all’attività di Socrate? Per due ragioni: la prima è
perché le persone nascono e rinascono ogni volta che pensano in modo personale,
come hai fatto tu; ed essere autentici può essere scomodo e doloroso quando si vive
nel conformismo acritico di una classe poco illuminata; e la seconda è perché
per pensare è necessario uscire o – letteralmente
– essere condotti fuori da qualche area desolata, di immobilità o di inerzia
culturale. Abbiamo bisogno di una levatrice in famiglia, nella scuola, tra gli
amici che ci consenta di dare origine a noi stessi, alla nostra vera natura. La
tua legittima levatrice, per fortuna, è stata la scuola. I ragazzi delle medie,
si sa, possono essere feroci con chi è diverso, con chi ha già maturato una
passione autentica. L’indolenza e la passività, purtroppo, richiedono tempo per
essere sconfitte e non tutti (non solo a quell’età) riescono a compiere la
metamorfosi verso l’individuazione autentica. Pensando alla liberazione dalle
catene mi è poi venuto in mente il mito della caverna che Platone racconta nel VII
libro della Repubblica. Platone riferisce
di schiavi legati e costretti a vedere ombre proiettate su un muro. Gli schiavi
credono che le ombre, come le sagome di un grande schermo cinematografico, siano
l’unica realtà. Ma uno di essi riesce a liberarsi dalle catene e scorge che c’è
un mondo più complesso rispetto a quello ordinario. Scopre nuovi oggetti e il
luogo da cui proviene la luce. Poiché i suoi occhi non sono abituati al
bagliore luminoso, all’inizio non distingue esattamente la realtà, ma poi piano
piano si abitua ad essa e sente che il suo bisogno di verità è appagato solo da
quella nuova dimensione (la nascita). Platone insegna che la condizione
originaria dell’uomo è pertanto di lontananza dalla verità (la vita nella
caverna-classe) e che la verità è il frutto di un percorso non certo facile; tuttavia,
solo grazie a questo cammino l’uomo si libera dai ceppi dell’ignoranza. Allora,
una volta nati, rinascere è fondamentale. Non perché si dovranno vivere
continui cicli di vite, come pensava l’orfismo antico. Ma perché, anche se l’atto
fisico della nascita avviene una volta sola nella vita, la crescita e la
propria espansione richiedono un continuo processo di generazione. Potremmo
fermarci qui, ma Platone è anche – e soprattutto – un filosofo politico. Decide
pertanto di continuare la storiella e scrive che la persona che si sente appagata
nel nuovo contesto potrebbe anche starsene lì, a godere della meraviglia. Invece
no. Pensa ai suoi compagni e allora torna nella caverna per cercare di
informarli. Purtroppo, il passaggio dalla luce al buio rende il suo incedere
incerto e le sue parole sono incomprese. I vecchi amici lo deridono e lo
allontanano sino a condannarlo a morte, proprio come è successo a Socrate. Ma
Platone afferma che quell’uomo è rinato
un’altra volta quando ha deciso di tornare a dialogare anche con coloro che lo “prendevano
in giro”. Il filosofo greco ci ha insegnato che la rinascita non è solo un momento
individuale: il risveglio più importante è quello collettivo. Si può allora rinascere
“sul serio” e poi rinascere ancora: senza necessariamente attendere un futuro
lontano, perché anche tu – già da ora – puoi decidere di essere levatrice per i tuoi amici.
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 9 dicembre 2019
Una bella persona
Caro professore,
Nella mia breve vita
ho sempre ricevuto tanti giudizi ed ho sempre sentito giudicare. Una tipica
frase detta è la seguente: «è davvero una bella persona», tuttavia non capisco
come si possa giungere ad una tale conclusione. Quando una persona è una bella
persona? È davvero necessario determinarlo? Domando anche come mai noi stessi
ci facciamo sempre influenzare da questo giudizio, anche perché sinceramente
non credo che esso possa cambiarci la vita. Quando una persona è bella?
Claudia, II Beta
Cara Claudia,
Effettivamente siamo abituati a dire di qualcuno: «è un bel
ragazzo» o «è una bella ragazza», facendo riferimento alle caratteristiche
fisiche più appariscenti, ai lineamenti armoniosi. Quando affermiamo pertanto che
un tale è, in generale, una «bella persona»,
evidentemente intendiamo qualcosa di più rispetto alla bellezza esteriore così immediatamente
riconoscibile. E soprattutto qualcosa di diverso. Anche perché un ragazzo o una
ragazza (un uomo o una donna) possono essere estremamente affascinanti nei loro
tratti superficiali, ma non è detto che possiedano ulteriori qualità. E anche
se il grande Cicerone nel De Oratore (55
a. C.) scriveva che: «imago animi vultus,
indices oculi», «specchio dell’animo
è il volto e gli occhi ne sono gli interpreti», purtroppo la storia ci
insegna che non sempre tra l’animo della persona e il suo volto la
corrispondenza è così evidente. Sembra talvolta che la correlazione sia assente
o che vi sia piuttosto una forte discrepanza tra i due elementi. Seneca, nelle Lettere a Lucilio (62-65 d. C.), rivolgendosi
al suo caro amico gli raccontava questa storiella: «Cratete, […], vedendo un
ragazzo che passeggiava in luogo appartato, gli domandò che cosa facesse lì da
solo. “Parlo con me stesso”, rispose. E Cratete replicò: “Mi raccomando, fa’ molta attenzione: stai
parlando con un cattivo soggetto”». In questo caso la bellezza non è più
riferita a ciò che appare alla vista, ma ad una struttura recondita dell’animo
umano. Così, i cattivi soggetti sono equiparati
a brutte persone per qualità che di
solito definiamo interiori e sostanziali. Tra i libri – di cui ho memoria – che
più hanno cercato di segnare la differenza tra persone belle e brutte, mi
vengono in mente molte opere di storia, soprattutto
biografie. E in particolare quelle di Adolf Eichmann e Giorgio Perlasca. La
filosofa Hannah Arendt ha scritto sulla vita del primo un libro che si intitola
La banalità del male (1963), lo
storico Enrico Deaglio ha scritto sulla storia del secondo La banalità del bene (1991). Ho rivisto più volte, anche con i ragazzi
a scuola, il processo ad Eichmann a Gerusalemme nel 1961 in una versione di
sintesi delle registrazioni originali. Ho visto il generale delle SS
invecchiato e con un incedere in declino; l’ho visto incanutito e debole muoversi
a scatti; il volto sfiorito e debilitato suscitava anche tenerezza. Ma
conoscendo l’impegno profuso nella caccia agli ebrei e avendo letto interviste
rilasciate a giornalisti neonazisti, rese note dopo la sua morte, sono indotto a
pensare che sia stata una brutta persona,
perché per tutta la vita ha abbracciato idee malvagie ed è rimasto insensibile
al dolore degli altri, empaticamente anestetizzato verso l’essere umano.
Rimango incantato invece da Giorgio Perlasca, commerciante di carne, che
durante la seconda guerra mondiale, a Budapest, invece di pensare a se stesso
ha salvato migliaia di persone fingendosi un diplomatico spagnolo. Ogni giorno
ha corso il rischio di essere scoperto e ucciso e ogni giorno ha rinnovato il
suo impegno per salvare delle vite. E quando gli chiesero perché aveva agito in
modo così altruistico, invece di salvare esclusivamente se stesso, egli ha
semplicemente risposto: «lei cosa avrebbe
fatto al mio posto?», sottintendendo che scegliere il bene – la vita di persone
innocenti – era già una ragione ampiamente sufficiente. Naturalmente questi
sono esempi emblematici, ma la bellezza della persona è data dalla
corrispondenza tra principi sani e azione. Non basta la coerenza tra idee e comportamenti,
perché le convinzioni possono anche essere immorali e la conformità ad esse non
sarebbe certo opportuna. Ma ci sono uomini e donne che nonostante la fragilità
della vita, le pressioni e le influenze a cui sono sottoposti, riescono a tenere
salda la rotta nell’oceano in tempesta, quando non è affatto chiaro se vincerà il
mare o la nave. Sono persone che fanno corrispondere a valori positivi e
altruistici atti conseguenti. Anche quando la vita li colpisce aspramente
riescono a far primeggiare ragioni e valori socialmente buoni. Allora una
persona è bella se la sua azione è tesa al bene, perché il bene non si
identifica necessariamente con ciò che è conveniente; una persona è bella
quando i comportamenti che scaturiscono dal suo agire sono coerenti con il rispetto
di sé e degli altri. È necessario utilizzare tale connotazione? Io penso di sì.
E se dovessi dare a te – e a me – un consiglio per vivere bene, prenderei a
prestito le parole di Seneca e ti direi: “Mi
raccomando, fa’ molta attenzione: circondati di belle persone. Ma ancora di
più: sii tu una bella persona”.
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 2 dicembre 2019
Non sentirsi mai abbastanza
Caro professore,
Sono alcuni giorni che
rifletto riguardo al “non sentirsi abbastanza”. Noi disponiamo di un telefono
con dei social e capita spesso di leggere frasi che sono motivo di riflessione
o di autocritica: penso che sia facile alla nostra età sentirsi inadeguati a
determinate situazioni, ma non capisco come mai molti di noi non si sentano
all’altezza. Forse può essere spiegato dal fatto che viviamo in un mondo in cui
l’apparenza conta più della personalità: tutti sono pronti a giudicarti quando
sbagli. Questo pensare di non essere abbastanza bravi a scuola, abbastanza
determinati, abbastanza simpatici, causa ansia e pressione a tal punto che mi
chiedo se ne valga la pena, a tal punto che non so se io sia la vera me. Come
si può capire chi si è veramente?
Carla, II alfa
Cara Carla,
Quando rifletto sull’idea di non essere abbastanza se
stessi, mi vengono in mente due autori che hanno percorso strade parallele
nell’analisi della condizione umana: Soeren Kierkegaard, un filosofo danese
della prima metà dell’Ottocento, e Alain Ehrenberg, uno psichiatra francese
contemporaneo. Entrambi hanno dedicato un libro a tale tematica e hanno scritto
pagine di grande qualità. Il primo ha intitolato la sua opera La malattia mortale (1849), il secondo La fatica di essere se stessi (1998).
Entrambi considerano che «essere se
stessi» sia in fondo un requisito fondamentale per non vivere in modo alienato,
forsennato o convulso la propria esperienza nel mondo. Sia il filosofo sia lo
psichiatra considerano che «non sentirsi
abbastanza» o non appartenersi sia tuttavia una forma patologica, una sorta
di “malattia”. Kierkegaard parla infatti di “malattia mortale”; Ehrenberg, a distanza di anni, traduce quel
malessere costitutivo con “malattia
d’insufficienza”. Il primo ritiene che l’impossibilità di essere se stessi
conduca alla condizione esistenziale della disperazione,
il secondo della depressione,
soprattutto nel mondo giovanile. Si tratta di due prospettive diverse, ma
complementari: la prima evidenzia una caratteristica della natura umana: da una
parte insoddisfatta e delusa dal suo essere limitata all’ambito del finito da
cui è costantemente inappagata, dall’altra regolarmente frustrata in quanto
ogni suo desiderio di fondersi nell’infinito è vanificato dalla sua natura
mortale. Per Kierkegaard questa impossibilità di essere se stessi è inscritta
nella natura stessa, i filosofi dicono che è una caratteristica ontologica dell’uomo, ed essendo
costitutiva fa sì che l’essere umano sia necessariamente un essere
insoddisfatto e carente, perché se desidera escludere la dimensione
dell’infinito dalla propria vita sente che il finito non lo appaga completamente
e se invece desidera appartenere all’infinito sente il peso della condizione
del corpo che gli impedisce di liberarsi dai lacci della mortalità e della
finitezza. Kierkegard dice in sostanza che l’uomo è un essere non-finito ma
neppure infinito e che pertanto non è stabilizzato nella natura. Ehrenberg,
invece, affina lo sguardo sulle relazioni con il mondo. Come se non bastasse la
consapevolezza dell’insufficienza del nostro status originario, sentiamo spesso
la nostra inadeguatezza alle richieste degli altri: della scuola, degli amici,
della famiglia, degli affetti individuali, del mondo del lavoro. Purtroppo tale
senso di manchevolezza non è solo una sensazione saltuaria, ma si trasforma talvolta
in un turbamento permanente quando le richieste che ci vengono fatte per essere
accettati sono sempre più alte. Siamo così attraversati da un senso di
insufficienza alimentato dalla vergogna, perché – come dici tu – non ci
sentiamo abbastanza bravi, simpatici, creativi e intelligenti. Questo non “sentirci
abbastanza” procura insicurezza alla nostra identità, ci rende tristi e ci
impone ritmi che snaturano la bellezza di ogni attività. Ma è proprio vero che
non siamo mai all’altezza di quello che facciamo e che dobbiamo correre come
matti per avvertire di aver fatto bene? Ehrenberg scrive che «L’uomo deficitario e l’uomo compulsivo sono
le due facce di questo Giano». Allora, per non sentirci come un Giano
bifronte, da un lato perennemente inadeguati e dall’altro irrimediabilmente compulsivi,
forse dovremmo conoscere meglio noi stessi, come ci hanno insegnato i Greci.
Conoscere se stessi significa apprendere che non tutto è possibile, ed esprime
la necessità di prendere coscienza delle proprie caratteristiche individuali. Non
sottostimare il valore delle tue esperienze, non confrontarle eccessivamente con
quelle di altri tuoi compagni; osserva i tuoi progressi, sappi apprezzare i
tuoi miglioramenti e concentrati sulle tue conquiste quotidiane. Guarda
soprattutto alla tua evoluzione, al tuo personale cambiamento. Come si può
capire chi si è veramente? C’è chi si concentra sull’equilibrio nel suo
rapporto con il mondo. E c’è chi lascia aperta la riflessione sulla dimensione
ontologica dell’essere umano. Per capire chi si è veramente, in ogni caso
bisogna esplorare anche la dimensione costitutiva dell’uomo: o per ritirarsi
definitivamente nel perimetro del mondo e delle sue relazioni o per lasciare
aperta anche la dimensione della trascendenza, senza cadere né nella disperazione né
nella depressione.
Un caro saluto,
Alberto
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