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Cor-rispondenze

lunedì 2 dicembre 2019

Non sentirsi mai abbastanza


Risultato immagini per essere se stessi"



Caro professore,
Sono alcuni giorni che rifletto riguardo al “non sentirsi abbastanza”. Noi disponiamo di un telefono con dei social e capita spesso di leggere frasi che sono motivo di riflessione o di autocritica: penso che sia facile alla nostra età sentirsi inadeguati a determinate situazioni, ma non capisco come mai molti di noi non si sentano all’altezza. Forse può essere spiegato dal fatto che viviamo in un mondo in cui l’apparenza conta più della personalità: tutti sono pronti a giudicarti quando sbagli. Questo pensare di non essere abbastanza bravi a scuola, abbastanza determinati, abbastanza simpatici, causa ansia e pressione a tal punto che mi chiedo se ne valga la pena, a tal punto che non so se io sia la vera me. Come si può capire chi si è veramente?
Carla, II alfa


Cara Carla,
Quando rifletto sull’idea di non essere abbastanza se stessi, mi vengono in mente due autori che hanno percorso strade parallele nell’analisi della condizione umana: Soeren Kierkegaard, un filosofo danese della prima metà dell’Ottocento, e Alain Ehrenberg, uno psichiatra francese contemporaneo. Entrambi hanno dedicato un libro a tale tematica e hanno scritto pagine di grande qualità. Il primo ha intitolato la sua opera La malattia mortale (1849), il secondo La fatica di essere se stessi (1998). Entrambi considerano che «essere se stessi» sia in fondo un requisito fondamentale per non vivere in modo alienato, forsennato o convulso la propria esperienza nel mondo. Sia il filosofo sia lo psichiatra considerano che «non sentirsi abbastanza» o non appartenersi sia tuttavia una forma patologica, una sorta di “malattia”. Kierkegaard parla infatti di “malattia mortale”; Ehrenberg, a distanza di anni, traduce quel malessere costitutivo con “malattia d’insufficienza”. Il primo ritiene che l’impossibilità di essere se stessi conduca alla condizione esistenziale della disperazione, il secondo della depressione, soprattutto nel mondo giovanile. Si tratta di due prospettive diverse, ma complementari: la prima evidenzia una caratteristica della natura umana: da una parte insoddisfatta e delusa dal suo essere limitata all’ambito del finito da cui è costantemente inappagata, dall’altra regolarmente frustrata in quanto ogni suo desiderio di fondersi nell’infinito è vanificato dalla sua natura mortale. Per Kierkegaard questa impossibilità di essere se stessi è inscritta nella natura stessa, i filosofi dicono che è una caratteristica ontologica dell’uomo, ed essendo costitutiva fa sì che l’essere umano sia necessariamente un essere insoddisfatto e carente, perché se desidera escludere la dimensione dell’infinito dalla propria vita sente che il finito non lo appaga completamente e se invece desidera appartenere all’infinito sente il peso della condizione del corpo che gli impedisce di liberarsi dai lacci della mortalità e della finitezza. Kierkegard dice in sostanza che l’uomo è un essere non-finito ma neppure infinito e che pertanto non è stabilizzato nella natura. Ehrenberg, invece, affina lo sguardo sulle relazioni con il mondo. Come se non bastasse la consapevolezza dell’insufficienza del nostro status originario, sentiamo spesso la nostra inadeguatezza alle richieste degli altri: della scuola, degli amici, della famiglia, degli affetti individuali, del mondo del lavoro. Purtroppo tale senso di manchevolezza non è solo una sensazione saltuaria, ma si trasforma talvolta in un turbamento permanente quando le richieste che ci vengono fatte per essere accettati sono sempre più alte. Siamo così attraversati da un senso di insufficienza alimentato dalla vergogna, perché – come dici tu – non ci sentiamo abbastanza bravi, simpatici, creativi e intelligenti. Questo non “sentirci abbastanza” procura insicurezza alla nostra identità, ci rende tristi e ci impone ritmi che snaturano la bellezza di ogni attività. Ma è proprio vero che non siamo mai all’altezza di quello che facciamo e che dobbiamo correre come matti per avvertire di aver fatto bene? Ehrenberg scrive che «L’uomo deficitario e l’uomo compulsivo sono le due facce di questo Giano». Allora, per non sentirci come un Giano bifronte, da un lato perennemente inadeguati e dall’altro irrimediabilmente compulsivi, forse dovremmo conoscere meglio noi stessi, come ci hanno insegnato i Greci. Conoscere se stessi significa apprendere che non tutto è possibile, ed esprime la necessità di prendere coscienza delle proprie caratteristiche individuali. Non sottostimare il valore delle tue esperienze, non confrontarle eccessivamente con quelle di altri tuoi compagni; osserva i tuoi progressi, sappi apprezzare i tuoi miglioramenti e concentrati sulle tue conquiste quotidiane. Guarda soprattutto alla tua evoluzione, al tuo personale cambiamento. Come si può capire chi si è veramente? C’è chi si concentra sull’equilibrio nel suo rapporto con il mondo. E c’è chi lascia aperta la riflessione sulla dimensione ontologica dell’essere umano. Per capire chi si è veramente, in ogni caso bisogna esplorare anche la dimensione costitutiva dell’uomo: o per ritirarsi definitivamente nel perimetro del mondo e delle sue relazioni o per lasciare aperta anche la dimensione della trascendenza, senza cadere né nella disperazione nella depressione.
Un caro saluto,
Alberto



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