Caro professore,
Sono alcuni giorni che
rifletto riguardo al “non sentirsi abbastanza”. Noi disponiamo di un telefono
con dei social e capita spesso di leggere frasi che sono motivo di riflessione
o di autocritica: penso che sia facile alla nostra età sentirsi inadeguati a
determinate situazioni, ma non capisco come mai molti di noi non si sentano
all’altezza. Forse può essere spiegato dal fatto che viviamo in un mondo in cui
l’apparenza conta più della personalità: tutti sono pronti a giudicarti quando
sbagli. Questo pensare di non essere abbastanza bravi a scuola, abbastanza
determinati, abbastanza simpatici, causa ansia e pressione a tal punto che mi
chiedo se ne valga la pena, a tal punto che non so se io sia la vera me. Come
si può capire chi si è veramente?
Carla, II alfa
Cara Carla,
Quando rifletto sull’idea di non essere abbastanza se
stessi, mi vengono in mente due autori che hanno percorso strade parallele
nell’analisi della condizione umana: Soeren Kierkegaard, un filosofo danese
della prima metà dell’Ottocento, e Alain Ehrenberg, uno psichiatra francese
contemporaneo. Entrambi hanno dedicato un libro a tale tematica e hanno scritto
pagine di grande qualità. Il primo ha intitolato la sua opera La malattia mortale (1849), il secondo La fatica di essere se stessi (1998).
Entrambi considerano che «essere se
stessi» sia in fondo un requisito fondamentale per non vivere in modo alienato,
forsennato o convulso la propria esperienza nel mondo. Sia il filosofo sia lo
psichiatra considerano che «non sentirsi
abbastanza» o non appartenersi sia tuttavia una forma patologica, una sorta
di “malattia”. Kierkegaard parla infatti di “malattia mortale”; Ehrenberg, a distanza di anni, traduce quel
malessere costitutivo con “malattia
d’insufficienza”. Il primo ritiene che l’impossibilità di essere se stessi
conduca alla condizione esistenziale della disperazione,
il secondo della depressione,
soprattutto nel mondo giovanile. Si tratta di due prospettive diverse, ma
complementari: la prima evidenzia una caratteristica della natura umana: da una
parte insoddisfatta e delusa dal suo essere limitata all’ambito del finito da
cui è costantemente inappagata, dall’altra regolarmente frustrata in quanto
ogni suo desiderio di fondersi nell’infinito è vanificato dalla sua natura
mortale. Per Kierkegaard questa impossibilità di essere se stessi è inscritta
nella natura stessa, i filosofi dicono che è una caratteristica ontologica dell’uomo, ed essendo
costitutiva fa sì che l’essere umano sia necessariamente un essere
insoddisfatto e carente, perché se desidera escludere la dimensione
dell’infinito dalla propria vita sente che il finito non lo appaga completamente
e se invece desidera appartenere all’infinito sente il peso della condizione
del corpo che gli impedisce di liberarsi dai lacci della mortalità e della
finitezza. Kierkegard dice in sostanza che l’uomo è un essere non-finito ma
neppure infinito e che pertanto non è stabilizzato nella natura. Ehrenberg,
invece, affina lo sguardo sulle relazioni con il mondo. Come se non bastasse la
consapevolezza dell’insufficienza del nostro status originario, sentiamo spesso
la nostra inadeguatezza alle richieste degli altri: della scuola, degli amici,
della famiglia, degli affetti individuali, del mondo del lavoro. Purtroppo tale
senso di manchevolezza non è solo una sensazione saltuaria, ma si trasforma talvolta
in un turbamento permanente quando le richieste che ci vengono fatte per essere
accettati sono sempre più alte. Siamo così attraversati da un senso di
insufficienza alimentato dalla vergogna, perché – come dici tu – non ci
sentiamo abbastanza bravi, simpatici, creativi e intelligenti. Questo non “sentirci
abbastanza” procura insicurezza alla nostra identità, ci rende tristi e ci
impone ritmi che snaturano la bellezza di ogni attività. Ma è proprio vero che
non siamo mai all’altezza di quello che facciamo e che dobbiamo correre come
matti per avvertire di aver fatto bene? Ehrenberg scrive che «L’uomo deficitario e l’uomo compulsivo sono
le due facce di questo Giano». Allora, per non sentirci come un Giano
bifronte, da un lato perennemente inadeguati e dall’altro irrimediabilmente compulsivi,
forse dovremmo conoscere meglio noi stessi, come ci hanno insegnato i Greci.
Conoscere se stessi significa apprendere che non tutto è possibile, ed esprime
la necessità di prendere coscienza delle proprie caratteristiche individuali. Non
sottostimare il valore delle tue esperienze, non confrontarle eccessivamente con
quelle di altri tuoi compagni; osserva i tuoi progressi, sappi apprezzare i
tuoi miglioramenti e concentrati sulle tue conquiste quotidiane. Guarda
soprattutto alla tua evoluzione, al tuo personale cambiamento. Come si può
capire chi si è veramente? C’è chi si concentra sull’equilibrio nel suo
rapporto con il mondo. E c’è chi lascia aperta la riflessione sulla dimensione
ontologica dell’essere umano. Per capire chi si è veramente, in ogni caso
bisogna esplorare anche la dimensione costitutiva dell’uomo: o per ritirarsi
definitivamente nel perimetro del mondo e delle sue relazioni o per lasciare
aperta anche la dimensione della trascendenza, senza cadere né nella disperazione né
nella depressione.
Un caro saluto,
Alberto
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