Caro professore,
Sveglia. Lezioni online. Perdo tempo sul
telefono. Mangio. Leggo un libro. Suono un po’ il pianoforte. Canto. Suono un po’
la chitarra. Merenda. Telefono. Compiti.
Cena. Film. Mi metto nel letto e imposto la sveglia. Mi addormento. Ma in
realtà la mia giornata non è proprio così. E' costantemente immersa di
pensieri, affoga di malinconia, colma di sguardi che nessuno vede, di sospiri,
immaginazione. Perché quando stai a casa il mondo prende la forma della tua cameretta,
della cucina, del soggiorno, delle mura che racchiudono la realtà. E ti lasci
cullare dai ricordi, dalle foto, ti lasci far prendere per mano dalla noia,
dalla malinconia. “Cosa faccio appena tutto ciò finisce?”, ti chiedi. Io vorrei
andare con la mia migliore amica a correre, studiare in gruppo, abbracciare mia
nonna. Vorrei andare a ballare, ad una mostra, ad un concerto. Vorrei andare a
fare la spesa con mia mamma, fare una sorpresa a qualcuno e poi abbracciarlo
forte. Vorrei andare al mare, andare a fare shopping, comprare delle scarpe
nuove, andare in biblioteca, camminare in montagna. Ho tanta voglia di fare, di
riempire le mie giornate di novità, spensieratezza ed allegria. Ma per ora
aspetto. Domani forse. O forse no. Per adesso oggi rimane un altro giorno come
ieri.
Alice, 3C
Cara
Alice,
La prima
parte della tua lettera mi ricorda, nella scelta dello stile, una vita ritmata
dall’organizzazione forzata, che scorre priva della sua musicalità. Ma la
scrittura e la vita fluiscono parallele. Quando la vita non è contratta, anche
la scrittura ha il suo respiro, le sue onde più o meno ampie che danno senso al
suo fraseggio. E quello che accade oggi ha permeato così a fondo l’esistenza
che ne ha fatto saltare la fluidità, la sintassi del senso. Da una parte la
contrazione degli eventi personali, che si susseguono quasi separati gli uni
dagli altri; dall’altra il mondo, oggi divenuto – come l’Ulisse di Joyce – un flusso di vita che ha scardinato il ritmo ordinario
in cui eravamo soliti vederlo fluire. Giorni che sembrano uguali, ma che in
realtà non passano, perché è cambiata la nostra condizione. Per comprendere
questa mutazione ci vengono in aiuto i primi versi del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, quando
l’autore, commentando un naufragio, scrive: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle
acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo
spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte». Sarebbe
stupendo contemplare da lontano e con distacco una sorte avversa che non ci
coinvolge se non nella compassione. Invece abbiamo scoperto che la terraferma
sulla quale pensavamo di poggiare è trascinata nella stessa rovina. E questa è
la struttura dell’esistenza, che sentivamo al riparo da ogni sussulto non
governabile e scopriamo invece essere implicata in un’incessante lotta contro
forze che potrebbero annientarla. In questi momenti di difficoltà l’uomo rivive
il proprio status, in bilico tra la
vita e la morte, dove l’esito della battaglia con la natura non è mai scontato né
la vittoria unilaterale o definitiva. Lucrezio esprime questa idea in versi
bellissimi: «Né possono i moti funesti
vincere per sempre né seppellire in eterno la vita, né, d'altra parte, i moti
vitali posson sempre salvare da morte le cose create. Con pari fortuna e con
forze eguali per tutti gli spazi continua così una guerra iniziata da tempo
infinito. E vince la vita ora qui ora
là, ed è vinta». Questa è la condizione della specie umana, sospesa tra
fragilità e forza. È la stessa fragilità che ci ricordava Pascal quando,
parlando della sproporzione tra il cosmo e l’individuo, affermava che «Non occorre che l’universo intero si armi
per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua, bastano per ucciderlo». Sono
parole che oggi capiamo perfettamente, perché definitivamente esposti alla
consapevolezza della condizione umana. Abbiamo compreso che il mondo è un unico
respiro e che una goccia d’acqua può attraversare i polmoni del mondo. E il
respiro è fatto di due momenti, di inspirazione ed espirazione. Il dolore è il
momento dell’espirazione, dove la sofferenza si manifesta soprattutto negli «sguardi che nessuno vede». Dai volti
degli anziani che, morendo, non vedono e non sono visti a quelli di medici,
infermieri e forze dell’ordine scomparsi di cui conosciamo approssimativamente solo
gli sforzi e il nome. Indipendentemente dalle visioni con cui interpretiamo la
vita, in quegli «sguardi che nessuno vede»
si concentra la peggiore sofferenza dell’uomo. Se possiamo rassegnarci a fatica
al nostro congedo dal mondo, vorremmo che non accadesse nell’assenza di
commiato, strappati ad una relazione. Ma poi, per fortuna, c’è il movimento
contrario a quello del dolore, quello dell’inspirazione, della speranza; quando
il mondo rientra nel soggetto per volontà del soggetto. Non è allora così negativo
che, provvisoriamente, «il mondo prenda la
forma della cameretta». Per un certo tempo abbiamo gettato la luce della nostra
ragione solo in avanti, come il faro della bicicletta, mentre ora, proprio a
partire dalla cameretta, possiamo farla ruotare a trecentosessanta gradi su
tutti gli aspetti della nostra esistenza. Per sentirne la caducità, dolorosa. E
la bellezza che, allentando il dolore, libera la vita. Ci servirà, perché
quando torneremo nel mondo, sapremo che di esso dovremo prenderci cura proprio
come di quel piccolo luogo che, per ora, custodisce la nostra vita.
Un
caro saluto,
Alberto
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