Caro professore,
sono tempi duri. Certo, forse non è proprio come essere in
guerra (almeno per noi), ma rimanere chiusi in casa tutti i giorni per tre o
quattro settimane si è rivelata una sfida non semplice, non scontata. Perché
gli uomini sono esseri socievoli di natura, e senza il contatto non riescono a
vivere bene. D’un tratto tutto è diventato strano: le famiglie si sono riunite,
semplicemente trascorrendo del tempo insieme che forse prima non avrebbero
considerato; si sono riscoperti aspetti della vita che si erano completamente
rimossi, gettati nel cassetto della memoria dalle nostre vite piene di altre
attività: fare una passeggiata, leggere un buon libro, suonare uno strumento
musicale (o imparare a farlo). Io, personalmente, ho riscoperto i sentieri dei
miei boschi, che da anni non percorrevo più. Insomma, le vite di tutti
improvvisamente si sono trasformate radicalmente. E in molti casi si sono
tremendamente complicate: per esempio infermieri, medici, ricercatori, che
mettono la propria salute a repentaglio e si sacrificano per il bene altrui. E
in questa situazione l’economia rischia di sprofondare. E cosa ha generato
tutto questo? Una malattia. Sono secoli che l’uomo affronta epidemie e ancora
oggi queste riescono ad avere la meglio sul nostro sistema di vivere: com’è
possibile? Come mai l’uomo non è ancora riuscito a creare delle difese per
questo tipo di problema? Ormai siamo da molto tempo i “colonizzatori” di questo
mondo, perché quest’ultimo è ancora in grado di metterci in grande difficoltà?
Spero che non sia una questione troppo banale. Un saluto,
Giacomo, 3C
Caro Giacomo,
Non ci sono questioni banali. La banalità di solito risiede
nelle risposte, quasi mai all’altezza delle domande poste: o per incapacità di
immaginazione o per incomprensione della complessità delle domande stesse da
parte degli interlocutori. Osa quindi sempre porre domande, perché ti aiuteranno
a orientare lo sguardo, a chiarire l’oggetto della tua ricerca e l’obiettivo da
tenere di mira. E soprattutto non accontentarti mai di un’unica risposta. Le
risposte, quando hanno valore, servono a mettere in moto altre domande, ma
soprattutto a stimolare la ricerca. La risposta è un tentativo di esplorare una
tematica, un sentiero in un bosco che affianca altri sentieri sempre possibili.
L’aspetto della tua riflessione che più mi ha conquistato è legato allo stupore
che manifesti nell’osservare il contrasto tra la presunta onnipotenza dell’uomo
e la sua vulnerabilità; in modo particolare è sull’avverbio “ancora” («ancora riuscito») che nella parte finale
della lettera, piano piano, si concentra la tua meditazione. “Ancora”, in
fondo, sottende le nostre aspettative e le nostre frustrazioni: è la formula
dell’onnipotenza umana presente in forma inconscia dentro di noi e che affiora apertamente
nella domanda: «Come è possibile che
l’uomo non sia ancora riuscito a?». E si può declinare in altri
interrogativi analoghi: “Come mai in un
mondo così sofisticato nessuno è ancora riuscito ad elaborare una teoria
scientifica che spieghi il tutto, a risolvere tutte le questioni della fisica e
della matematica, a risolvere problemi etici, a mitigare la pulsione
distruttiva dell’uomo, la miseria, la fame, le malattie?”. Da una parte la
nostra conoscenza ci sembra portentosa, e certamente lo è. Ma dall’altra,
dietro ad essa c’è una grande illusione: siamo ad un passo dall’aver
decodificato la realtà e risolto tutte le difficoltà che hanno angustiato le
generazioni precedenti. Anche le società passate hanno pensato – come noi – di
aver allontanato le preoccupazioni antiche e si sono illuse dell’onnipotenza
dell’uomo. Tra le storie curiose che mi vengono in mente, pensa che nel 1899 il
capo ufficio brevetti statunitense pare si sia dimesso «perché non c’era più niente da inventare». Nel corso della storia
gli uomini o si sono esaltati, considerando di essere ad un passo dalla risoluzione
di tutti i problemi o si sono scoraggiati sulla possibilità di conseguire tale
obiettivo. Mi ha sempre affascinato la storia del fisiologo Emil Du
Bois-Reymond. Nel 1880, nel corso di una conferenza dal titolo “I sette enigmi del mondo”, egli affermò
di aver individuato alcuni problemi insolubili per la scienza e – come per
delimitare il perimetro delle possibilità umane – pronunciò la famosa frase: “ignoramus et ignorabimus” (“ignoriamo ed ignoreremo”). Un altro
fisiologo, Ernst Haeckel (1834-1919) non accettò quelle conclusioni e,
riponendo una smisurata fiducia nella scienza del proprio tempo, scrisse
l’opera “Gli enigmi del mondo”, poiché
ritenne di aver risolto tutti i misteri avanzati dal collega. Due atteggiamenti
opposti: da una parte, la consapevolezza dei limiti dell’uomo, dall’altra le
aspettative illimitate nella sua supremazia. Oggi diamo per scontata la vita, dall’infanzia
alla vecchiaia, e ci stupiamo se la nostra padronanza vacilla. A volte
consideriamo la potenza della specie e sottovalutiamo l’impotenza
dell’individuo, altre volte contempliamo l’impotenza della specie e, come
ubriachi, sopravvalutiamo la forza del singolo. La cultura greca ci ricorda che
gli uomini sono effimeri (ephemeros)
«creature di un sol giorno». Siamo “colonizzatori”
provvisori di questo mondo. La vita
continua a sorprenderci e non si lascia addomesticare definitivamente. Ogni
tanto scopriamo che è fragile e avvertiamo il brivido della nostra umanità.
Un caro saluto,
Alberto
Nessun commento:
Posta un commento