Caro professore,
Scrivo, quindi penso... non saprei con quali altre parole
descrivere il mio attuale stato d'animo e mi dispiace non poterle inviarle il
cartaceo di questa mia lettera, perché sto scrivendo di getto con una biro su
un foglio. Mi sembra quasi che lo scrivere, anziché digitare sulla tastiera di
un PC, sia esattamente il modo giusto per comunicare ciò che provo, ciò che
penso. In questi giorni, in cui la mia routine quotidiana è stata stravolta, in
cui le relazioni con le persone che conosco e a cui voglio bene sono cambiate,
in cui non posso annullarmi nel gesto sportivo, in cui la fatica ti è amica e
ti protegge, insomma in una condizione di vita così destabilizzare, il fatto di
essermi fermato a scrivere mi dà sollievo e mi dà il tempo di pensare. Pensare
che tutto è cambiato e che continuerà a cambiare anche nei prossimi mesi, ormai
è inevitabile. Ed io? Anche io sono cambiato? Tolto un accenno di barba e i
capelli un po’ più lunghi, chi mi guarda vede sempre il solito Guglielmo?
Perché invece io mi sento diverso. Più deciso, propositivo, riflessivo. Sembra
quasi che il fatto di essere circondato da dolore, smarrimento ed incertezza mi
abbia spronato a crescere più velocemente. Sono consapevole che potrebbero
arrivare momenti di pessimismo e sconforto, perché il futuro è sempre una
sfida, e magari ora sarà una sfida un po’ più impegnativa. Ma mi piace pensare
che ora mi limito a scrivere, nella speranza, domani, di agire. Mi dica professore:
questa è solo un’utopia di un adolescente?
Guglielmo, 3C
Caro Guglielmo,
Chissà che bella chiacchierata sarebbe nata tra te e il buon
Cartesio. Così bella che io avrei anche pagato il biglietto per essere presente.
Seduto su una sedia in un angolo del tavolo, vi avrei ascoltato con attenzione
e ammirazione. Da una parte Cartesio che dice: «Cogito ergo sum», «Penso,
dunque esisto», e dall’altra tu che sostieni «Scrivo, quindi penso». Al lume della candela, vi sareste guardati
negli occhi come i protagonisti del film “Il
buono, il brutto e il cattivo” (roba del West) o come Kasparov e Karpov
(roba di scacchi). Magari avreste proseguito con la massima «Scrivo, quindi penso, quindi esisto». E
il più rapido di voi, con una mossa sillogistica risolutiva, avrebbe potuto battere
un pugno sul tavolo e affermare: «Scrivo,
quindi esisto». E così la storia della filosofia dell’Occidente si sarebbe
arricchita in un solo colpo di tre profonde verità:
il pensiero garantisce la consapevolezza dell’esistenza («Penso, dunque esisto»), la scrittura apre alla dimensione del
pensiero («Scrivo, quindi penso») e la
scrittura genera una nuova cognizione di sé («Scrivo, quindi esisto»). Che serata. Va detto, però, a onore di
Cartesio, che egli era un uomo mite e non ti avrebbe guardato come ci si guarda
nel West, tutt’al più avrebbe preso la tua obiezione e l’avrebbe messa nelle Meditazioni metafisiche con una sua
risposta a seguire. Un signore d’altri tempi. Comunque, lasciando la frase del
filosofo, che ha già ricevuto autorevoli commenti, mi soffermerò sulla tua. È vero:
la scrittura ci aiuta a pensare, per una semplice ragione: genera il pensiero. Di
solito, il nostro sguardo scorre come la luce di un faro sulle pareti del mondo,
ma non afferra e non si porta via nulla. Illumina provvisoriamente senza
trattenere. Forse è per questo che è nata la fotografia: per conservare ciò che
la luce illuminava, ma non riuscivamo a fissare. Seneca conosceva la necessità dell’isolamento,
infatti scriveva: «Certi argomenti sono
tali che su di essi potresti scrivere anche andando in calesse, altri
richiedono un divano, tranquillità e solitudine». Noi non andiamo più in
calesse, ma scriviamo su dispositivi digitali e un po’ dappertutto: in auto, ma
anche a piedi, quando passeggiamo per fare ginnastica. In questo caso ci
preoccupiamo semplicemente di assestare la nostra posizione nella scacchiera
delle relazioni, ma poi abbiamo bisogno anche di ri-orientare lo sguardo per
bilanciare il nostro rapporto autentico con la vita. Così ci affidiamo ad un’altra
modalità della scrittura. Quella che, rallentando la corsa quotidiana, è in grado
di arginare i fastidi, annullare le distrazioni, fino a sospendere il tempo. Quella
che consente di dare forma a nuovi pensieri e di cesellarli. La filosofa spagnola
Maria Zambrano (detto tra noi, avrei pagato il biglietto per ascoltare anche lei)
scriveva queste belle parole: «C’è nello
scrivere un trattenere le parole, come nel parlare c'è un lasciarle libere, un
lasciarle distaccarsi, che potrebbe essere un loro distaccarsi da noi.
Scrivendo si trattengono le parole, le si fanno proprie, soggette a ritmo,
contrassegnate dal dominio umano di chi in tal modo le maneggia». Trattenere
e rilasciare, nel duplice gesto del respiro: della scrittura (meditazione e rivelazione)
e della parola pronunciata (annuncio e divulgazione). Pensi che gli altri vedano
solo i tuoi cambiamenti esteriori e quelli interiori siano invisibili
all’esterno? In realtà non è così. Quando le tue parole torneranno ad «essere libere», sveleranno in modo inequivocabile
se scaturiscono da nuovi concetti. E i tuoi amici, allora, potranno riconoscere
se in te è avvenuta qualche metamorfosi. Pensare però costa fatica. A proposito
di costi:
due biglietti in un solo giorno per la filosofia. Forse in questo
periodo dovrei adottare misure più restrittive ed essere più parsimonioso. E non
uscire. Neanche con l’immaginazione.
Un caro saluto,
Alberto
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