Forse i ragazzi hanno sentito per la prima volta l’antico
motto «panta rei» nella canzone di Francesco
Gabbani “Occidentali’s Karma”, il
brano che ha vinto il Festival di Sanremo nel 2017 («Comunque vada panta rei / And singing in the rain). Mentre chi ha
qualche anno in più forse ricorda la bella canzone dei Negramaro intitolata “Mentre tutto scorre”. Entrambe fanno
riferimento al fluire della vita e delle esperienze. In fondo, passano i periodi
tristi, l’amarezza, la delusione, le giornate noiose o quelle sfortunate; ma passano
anche le giornate liete e i momenti magici. L’espressione «Comunque vada tutto scorre» sottende forse per l’artista un duplice
invito: a non scoraggiarsi nei periodi bui e allo stesso tempo a non illudersi
che la felicità e la salute siano perenni. Sapere che il dolore si attenua è gran
cosa, ci fa sperare nella vita e ci permette di non abbatterci definitivamente;
sapere che la felicità si dissolve può renderci più responsabili e sobri nell’agire.
Ma l’espressione «tutto scorre» si
può sovrapporre al motto virgiliano «tempus
fugit», il tempo fugge? Non esattamente. Quando Eraclito afferma che «negli stessi fiumi entriamo e non entriamo,
siamo e non siamo» ha in mente qualcosa di più radicale della semplice fugacità
del tempo. Eraclito intende dire che nella realtà nulla permane: ossia nulla rimane
uguale a se stesso. Ci sono almeno due modi in cui facciamo esperienza del
cambiamento. Uno esteriore e uno interiore. Immaginiamo di essere comodamente
seduti in treno ad osservare il paesaggio. Il treno parte, e piano piano il
paesaggio ci viene incontro: vediamo case, alberi in fiore, campagne rigogliose,
strade, auto e persone che si avvicinano e poi si allontanano. Rileviamo il passaggio
degli oggetti e pensiamo al fluire della vita. Ma proviamo ora a rifare il
tragitto in un altro periodo; invece degli alberi in fiore, vediamo le
foglie a terra, i rami spogli, i campi di grano trasformati in campi vuoti o
ricoperti di neve. Il mondo è cambiato e noi abbiamo registrato il cambiamento.
Il tempo passa e il mondo cambia, non è più lo «stesso fiume» quello che incontriamo. Questa modalità di registrare
il cambiamento è simile al lavoro che svolgono le “Google cars”, le auto dotate
di telecamere che percorrono le strade dei paesi e delle città e censiscono il
paesaggio consentendoci di rivederlo quando avviamo una ricerca su Google. C’è
un secondo modo, però, in cui facciamo esperienza del fluire della vita. Quando
osserviamo il nostro cambiamento interiore. I pensieri di quando avevamo dieci
anni non ci fanno più paura, mentre quelli attuali condizionano fortemente il
nostro agire. In fondo non ci descriviamo con le stesse parole dell’infanzia né
abbiamo lo stesso sguardo sul mondo, anche se ci piacerebbe in molti momenti poterlo
mantenere. Il premio Nobel per la Letteratura 2020, la poetessa americana Louise Glück, lo ha
espresso in modo meraviglioso nella poesia “Nostos”:
«Guardiamo il mondo una volta, da
piccoli. / Il resto è memoria». Se dovessimo ripetere più volte la stessa
esperienza sappiamo che la risonanza emotiva sarebbe diversa. Non possiamo più rivivere
il timore del primo giorno della scuola elementare – anche se volessimo ripetere
quell’esperienza –, né avvertire l’urgenza di crescere in fretta per diventare
grandi. Al massimo oggi, se siamo in salute, vorremmo rallentare il fluire
degli anni. Se salendo sul treno in periodi diversi dell’anno
verifichiamo la trasformazione della realtà col passare del tempo, quando osserviamo la condizione
umana constatiamo che siamo noi a passare. Il tempo che ci struttura ci cambia intimamente in modo
definitivo: non è mai lo stesso soggetto a guardare il mondo. Il soggetto si
trasforma mentre la realtà muta. Così, la stessa realtà è vista con occhi
diversi in tempi diversi. Non possediamo, dunque, le videocamere delle “Google
cars”, perché la nostra videocamera interiore non è un oggetto, ma un organo
vivente che si modifica proprio mentre accoglie la realtà e la vive. Questo
cosa significa? Che quelli che noi consideriamo oggetti finiti e definiti non
sono propriamente tali. Sono dei processi. Anche gli uomini non sono semplici
presenze o oggetti facili da descrivere. Anch’essi sono dei processi. Allora –
se guardiamo più in generale –, la vita non è un ordine pacificato di oggetti
che permangono, ma un insieme di processi che si sviluppano. Ogni singola evoluzione
è diversa e unica. Per Eraclito, ma in generale per i Greci, i processi si
sviluppano nell’unicità dell’essere. «Per
chi ascolta non me, ma il lógos, sapienza è intuire che tutte le cose sono Uno,
e l'Uno è tutte le cose», dice il filosofo. Solo il tutto permane. Questa è
un’idea che attraverserà l’Occidente e sarà ripresa da molti filosofi. Per
dirla con Friedrich Hegel, un grande ammiratore di Eraclito che nelle “Lezioni sulla storia della filosofia” dedica
molte pagine al filosofo greco, potremmo dire che «ciò che è finito non è autentico», perché nel mondo non c’è nulla
di propriamente finito, definito e delimitato. Per Friedrich Hegel, infatti, il
finito non è altro che una variazione dell’infinito. E per lui - e per i
romantici - l’infinito è l’unica vera realtà.
Un caro saluto,
Alberto
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