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Cor-rispondenze

lunedì 30 novembre 2020

Giusto mezzo

 


Per i Greci chi sa amministrare nel corso degli anni le proprie azioni secondo “giusta misura” (“katametron”) può essere certo di vivere una vita di qualità. Tale qualità è misurata dalla felicità complessiva, che non dipende dalla fortuna e dalla casualità degli eventi positivi o negativi a cui gli uomini vanno incontro, ma dalla buona conduzione di sé. Indagando le varie modalità in cui l’uomo si trova quotidianamente ad agire, Aristotele ha creato una sorta di corrispondenza tra «giusta misura» e «giusto mezzo». Egli ritiene che, per conquistare il «giusto mezzo», occorra tenersi lontani dagli eccessi. E questo è comprensibile, perché, in genere, il difetto nell’agire è disapprovato e condannato dalla comunità, ma anche l’eccesso è considerato un grave errore da rigettare. Nell’“Etica nicomachea” il filosofo cita un passo dell’“Odissea”, quando Ulisse si rivolge al timoniere della sua imbarcazione e gli riferisce il consiglio che Calipso – in realtà Circe – gli aveva dato: «Tieni lontano la nave da questo fumo e dal flutto e cerca di giungere agli scogli: che essa non ti sfugga spingendosi in là e tu non ci mandi in rovina». Come il fumo e le onde alte sono segnali di pericolo che un buon marinaio non deve mai sottovalutare per proteggere se stesso, la nave e il proprio equipaggio, così gli uomini devono mantenersi distanti dagli estremi, perché entrambi pericolosi e in grado di compromettere la vita. Ma come si scopre il giusto mezzo? Come è possibile riconoscerlo negli infiniti contesti relazionali in cui gli uomini si vengono a trovare? È semplice individuare una linea di demarcazione tra il difetto e l’eccesso, tra debolezza e sregolatezza? Aristotele dice che il giusto mezzo non è dato una volta per tutte, ma si riconosce di volta in volta solo se le decisioni vengono prese con «prudenza». La prudenza, che è insieme ponderatezza e lungimiranza – la capacità di prevedere gli effetti delle proprie azioni – è dunque il parametro sia per individuare il modo migliore di agire sia per giudicare il valore delle azioni. Poiché la vita ci chiede continuamente di compiere delle scelte, le scelte fatte con giudizio sono considerate opportune e sagge. Scrive Aristotele: «Quindi la virtù è uno stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto». Nelle varie opere di etica, l’ “Etica nicomachea” l’“Etica eudemia” e la “Grande etica”, il filosofo individua una serie di virtù che rappresentano il vertice dell’equilibrio che l’uomo può perseguire nella condotta: un equilibro positivo che produce benefici sia al soggetto che pratica comportamenti virtuosi sia alle persone che ne subiscono gli effetti. Le scelte virtuose non devono essere effettuate una sola volta o saltuariamente, ma in modo costante, possibilmente reiterate ogni giorno. Ecco alcune virtù che segnano la giusta misura dell’agire: il coraggio (tra temerarietà e viltà), la temperanza (tra intemperanza e insensibilità ai piaceri), la mansuetudinemitezza (tra iracondia e impassibilità), la generosità (tra prodigalità e avarizia), la magnanimità (tra vanità e piccineria d’animo), la magnificenza (tra maestosità e meschineria), lo sdegno (tra invidia e malevolenza), la serietà (tra superbia e compiacenza), la verecondia – pudore (tra impudenza e timidezza), la facezia (tra buffoneria e rozzezza), l’amabilità (tra adulazione e ostilità), la veracitàsincerità (tra ironia e millanteria), il giusto guadagno (tra lucro e perdita), la fierezza (tra presunzione e sottomissione), la fermezza (tra mollezza e grossolanità, durezza), la saggezza (tra furberia e ingenuità), la giustizia (tra ingiustizie per eccesso e per difetto). Vi sembra che il «giusto mezzo» sia una sorta di compromesso al ribasso, la scelta tipica dell’uomo qualunque o di chi conduce un’esistenza anonima e che, pur di sopravvivere, non osa rischiare a sufficienza? Se paragoniamo le tre variabili: difetto, medietà ed eccesso alle tre corsie di una carreggiata autostradale, sembra che Aristotele dica di prediligere sempre la corsia centrale e di stare alla larga dalle altre due. L’immagine che suscita questa idea genera effettivamente sconforto, perché sembra suggerire all’individuo che non deve osare, come se dovesse condurre la propria esistenza in modo monotono e grigio. Non sarebbe preferibile vivere una vita –  se non proprio «spericolata» o sempre nella corsia di sorpasso – con più adrenalina? Una maggior dose di energia non consentirebbe di vivere più intensamente? Aristotele direbbe che quella metafora è sbagliata. Perché la virtù è certamente il giusto mezzo – ossia una medietà tra due difetti –, ma non è una medietà rispetto al bene o alla perfezione. Rispetto alla perfezione la medietà è il punto più elevato. Ad esempio: il coraggio è la migliore qualità di una persona attiva, laboriosa e giudiziosa. La medietà tra i due estremi è dunque il punto più alto a cui l’uomo può pervenire nel controllo del proprio agire, non un compromesso né una resa. Qualche volta dimentichiamo questo particolare: conquistare il giusto mezzo è come giungere ad una vetta o acquisire un’eccellenza. Per questo già il poeta greco Teognide scriveva che: «Il giusto mezzo è l’ottimo».

Un caro saluto,

Alberto

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