Per i Greci chi sa amministrare nel corso degli
anni le proprie azioni secondo “giusta misura” (“katametron”) può essere certo di vivere una vita di qualità. Tale
qualità è misurata dalla felicità complessiva, che non dipende dalla fortuna e
dalla casualità degli eventi positivi o negativi a cui gli uomini vanno
incontro, ma dalla buona conduzione di sé. Indagando le varie modalità in cui
l’uomo si trova quotidianamente ad agire, Aristotele ha creato una sorta di corrispondenza
tra «giusta misura» e «giusto mezzo». Egli ritiene che, per
conquistare il «giusto mezzo»,
occorra tenersi lontani dagli eccessi. E questo è comprensibile, perché, in
genere, il difetto nell’agire è disapprovato e condannato dalla comunità, ma anche
l’eccesso è considerato un grave errore da rigettare. Nell’“Etica nicomachea” il filosofo cita un
passo dell’“Odissea”, quando Ulisse si
rivolge al timoniere della sua imbarcazione e gli riferisce il consiglio che Calipso
– in realtà Circe – gli aveva dato: «Tieni
lontano la nave da questo fumo e dal flutto e cerca di giungere agli scogli:
che essa non ti sfugga spingendosi in là e tu non ci mandi in rovina». Come
il fumo e le onde alte sono segnali di pericolo che un buon marinaio non deve
mai sottovalutare per proteggere se stesso, la nave e il proprio equipaggio,
così gli uomini devono mantenersi distanti dagli estremi, perché entrambi
pericolosi e in grado di compromettere la vita. Ma come si scopre il giusto
mezzo? Come è possibile riconoscerlo negli infiniti contesti relazionali in cui
gli uomini si vengono a trovare? È semplice individuare una linea di
demarcazione tra il difetto e l’eccesso, tra debolezza e sregolatezza? Aristotele
dice che il giusto mezzo non è dato una volta per tutte, ma si riconosce di
volta in volta solo se le decisioni vengono prese con «prudenza». La prudenza, che è insieme ponderatezza e lungimiranza –
la capacità di prevedere gli effetti delle proprie azioni – è dunque il
parametro sia per individuare il modo migliore di agire sia per giudicare il
valore delle azioni. Poiché la vita ci chiede continuamente di compiere delle
scelte, le scelte fatte con giudizio sono considerate opportune e sagge. Scrive
Aristotele: «Quindi la virtù è uno stato
abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi,
determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio,
medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto».
Nelle varie opere di etica, l’ “Etica
nicomachea” l’“Etica eudemia” e la
“Grande etica”, il filosofo individua
una serie di virtù che rappresentano il vertice dell’equilibrio che l’uomo può
perseguire nella condotta: un equilibro positivo che produce benefici sia al soggetto
che pratica comportamenti virtuosi sia alle persone che ne subiscono gli
effetti. Le scelte virtuose non devono essere effettuate una sola volta o saltuariamente,
ma in modo costante, possibilmente reiterate ogni giorno. Ecco alcune virtù che
segnano la giusta misura dell’agire: il coraggio
(tra temerarietà e viltà), la temperanza
(tra intemperanza e insensibilità ai piaceri), la mansuetudine – mitezza (tra
iracondia e impassibilità), la generosità
(tra prodigalità e avarizia), la magnanimità
(tra vanità e piccineria d’animo), la magnificenza
(tra maestosità e meschineria), lo sdegno
(tra invidia e malevolenza), la serietà
(tra superbia e compiacenza), la verecondia
– pudore (tra impudenza e timidezza), la facezia (tra buffoneria e rozzezza), l’amabilità (tra adulazione e ostilità), la veracità – sincerità
(tra ironia e millanteria), il giusto
guadagno (tra lucro e perdita), la fierezza
(tra presunzione e sottomissione), la fermezza
(tra mollezza e grossolanità, durezza), la saggezza
(tra furberia e ingenuità), la giustizia
(tra ingiustizie per eccesso e per difetto). Vi sembra che il «giusto mezzo» sia una sorta di
compromesso al ribasso, la scelta tipica dell’uomo qualunque o di chi conduce un’esistenza
anonima e che, pur di sopravvivere, non osa rischiare a sufficienza? Se paragoniamo
le tre variabili: difetto, medietà ed eccesso alle tre corsie di una
carreggiata autostradale, sembra che Aristotele dica di prediligere sempre la
corsia centrale e di stare alla larga dalle altre due. L’immagine che suscita
questa idea genera effettivamente sconforto, perché sembra suggerire
all’individuo che non deve osare, come se dovesse condurre la propria esistenza
in modo monotono e grigio. Non sarebbe preferibile vivere una vita – se non proprio «spericolata» o sempre nella corsia di sorpasso – con più
adrenalina? Una maggior dose di energia non consentirebbe di vivere più
intensamente? Aristotele direbbe che quella metafora è sbagliata. Perché la
virtù è certamente il giusto mezzo – ossia una medietà tra due difetti –, ma
non è una medietà rispetto al bene o alla perfezione. Rispetto alla perfezione
la medietà è il punto più elevato. Ad esempio: il coraggio è la migliore
qualità di una persona attiva, laboriosa e giudiziosa. La medietà tra i due
estremi è dunque il punto più alto a cui l’uomo può pervenire nel controllo del
proprio agire, non un compromesso né una resa. Qualche volta dimentichiamo
questo particolare: conquistare il giusto mezzo è come giungere ad una vetta o
acquisire un’eccellenza. Per questo già il poeta greco Teognide scriveva che: «Il giusto mezzo è l’ottimo».
Un caro saluto,
Alberto
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