Attribuita dallo storico Diogene Laerzio al politico e poeta
Solone (638 a.C. - 558 a.C.), uno dei Sette Savi, «Nulla di troppo» era l’importante motto scritto sul tempio di Delfi
che accompagnava l’altra scritta più famosa: «Conosci te stesso». «Nulla di
troppo» sembra appartenere ad un tempo lontano, perché la nostra epoca ci
ha abituato agli eccessi. Qualche volta ci stupiamo ancora delle follie di cui
gli uomini sono capaci, ma nel mondo spregiudicato in cui viviamo rischiamo di
assuefarci un po’ a tutto. Non solo alle incongruenze triviali esibite da
alcuni uomini politici, ma a vari tipi di esuberanze. Dai piatti e ai rubinetti
d’oro ostentati dalle famiglie criminali romane, allo sfoggio di 54 carte di
credito da parte della moglie del banchiere dell’Azerbaijan per la gestione
delle spese correnti. Lo stoico Epitteto (50 d.C. -138 d.C.) scrive nel “Manuale”: «se vai oltre le necessità del piede, ecco le calzature dorate, poi di
porpora, ricamate. Non c’è limite alcuno, una volta al di là della misura».
Gli uomini – in generale – hanno dei limiti? No. Perché non sono rigidamente disciplinati
dalla natura. Gli animali pare che non diventino ossessivi, perché la loro
attenzione è circolare: alternano pertanto varie occupazioni nei diversi momenti
della giornata. Quante persone, invece, non riescono più ad amministrare la
propria vita e diventano esasperate o schiave delle situazioni che hanno creato?
«Nulla di troppo» è pertanto un
invito importante per dare misura al desiderio infinito che abita l’uomo e lo
può condurre alla rovina, ma è anche un ammonimento, perché fuori dalla misura non
è neppure possibile apprezzare i piaceri. Anche le attività più belle praticate in
eccesso generano avversione e nausea. Democrito scriveva che «Se si passa la misura, anche la cosa più
gradevole ti diventa sommamente sgradevole». Il mondo greco invita pertanto
gli uomini alla moderazione, alla regolazione dei piaceri e delle proprie
azioni. In fondo, la misura è necessaria per non diventare schiavi e non
dipendere dai vizi, condannando la propria vita a sicura infelicità. Ma la giusta
misura oltre ad essere una dote indispensabile nella vita dell’uomo comune, deve
appartenere in modo specifico soprattutto all’uomo politico e al legislatore,
perché essi devono ideare e scrivere leggi equilibrate per i cittadini. A
maggior ragione tale virtù è necessaria nel diritto, per stabilire la giusta proporzione
delle pene che dovranno riparare alle intemperanze degli uomini. Le persone
sagge riescono dunque ad orientare l’energia del desiderio. Libere da forme di
schiavitù, sono in grado di esprimere se stesse e di realizzare i loro
progetti. Nel mito di Er, il soldato morto in battaglia che si ridesta dalla
morte e racconta ciò che ha visto nell’aldilà, Platone dice che persino le
anime che si reincarneranno per tornare in questa vita fanno una scelta che può
essere rispettosa o meno della misura. Anch’esse sono chiamate a scegliere
insieme al dèmone che è stato loro affidato da Lachesi, una delle tre Parche che
decidevano il destino. Scrive Platone: «Al
calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui
acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne
una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di più
della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto». Solo la misura
permette di non perdere completamente la memoria di ciò che si è visto e
vissuto. Anche il mondo romano ha dato molta importanza alla «giusta misura».
La parola latina che corrisponde a quella greca (“katametron”) è “modus”.
Modus significa “misura”, “limite”. Ricordiamo tutti la locuzione
latina che Orazio (65 a.C. - 8 a.C.) scrive nelle “Satire”: «est modus in rebus»,
«esiste una misura nelle cose; (esistono determinati confini, al di là e al
di qua dei quali non può esservi il giusto»). Il latinista di origine
molisana, Nicola Gardini, nel libro “Le 10
parole latine che raccontano il nostro mondo” (Garzanti 2018) ritiene che
la parola “Modus” sia tra quelle che
meglio rappresentano il mondo latino, e per mostrare questa verità ha composto
un ricco paragrafo intitolato “La forma della perfezione” in cui ha raccolto le
principali riflessioni del mondo romano. Seneca ricorda che il piacere può
condurre l’uomo «sull’orlo dell’abisso»
e che il vero bene consiste nella capacità di dare ordine all’incostanza e alla
volubilità dei desideri attraverso la ragione. Scrive il filosofo nelle “Lettere a Lucilio”: «Voglio dire: il piacere sta sull'orlo
dell'abisso, e si trasforma in dolore, se supera la giusta misura; ma è
difficile mantenere la giusta misura in ciò che hai ritenuto un bene: [solo] il
desiderio del vero bene è privo di pericoli». Solo il comportamento
virtuoso è privo di pericoli e non mette a repentaglio la vita dell’uomo. Già,
ma non crediate che sia sufficiente eliminare solo i vizi o gli eccessi: bisogna
saper organizzare la vita all’insegna dell’equilibrio e dell’armonia. Per
questo il filosofo aggiunge: «Immagina
che l'avidità si sia mitigata, che la dissolutezza sia repressa, che la
temerità sia tenuta a freno e che l'ignavia sia spronata: anche se i vizi sono
stati rimossi, bisogna imparare che cosa dobbiamo fare e come». E “ciò che
dobbiamo fare” e il “modo” appartengono ad un’arte preziosa i cui frutti sono
impagabili. Perché una vita buona – condotta all’insegna della moderazione – è una vita felice.
Un caro saluto,
Alberto
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