Vi siete mai posti il dilemma di Amleto: «Essere o non essere?» Se sia meglio
essere venuti al mondo o meno, se valga la pena affrontare le fatiche della
vita, combatterne i mali, resistere alle avversità, attraversare le disgrazie?
Bene, non fatene una questione personale: nascere e morire fanno parte di un
destino che non è riservato solo all’uomo. Non siamo gli unici esseri che
compaiono e poi scompaiono. Per Anassimandro, uno dei primi filosofi antichi di
Mileto, la vera realtà è l’infinito («ápeiron»),
ciò che è «senza limite». Da esso si
originano il regno inanimato e quello animato, tutti gli oggetti e le forme
viventi: le rocce, i fiumi, i vegetali, gli animali e gli uomini. La nascita si
origina proprio lì, come un flutto che si erge dal mare e nel mare ritorna. Dice
Anassimandro: «Principio degli esseri è
l’infinito... da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la
distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e
l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Innumerevoli
mondi si generano e si succedono in un ciclo eterno; ma questo emergere dall’infinito
per differenziarsi – diventare enti – non dura sempre: il finito è una sorta di
eccentricità, una volontà di rompere l’equilibrio dell’unità del tutto; ma
questa determinazione si paga: è considerata dal filosofo una colpa o un’ingiustizia
(«adikía»). Così, tutto ciò che affiora
da questo sfondo illimitato, e si determina a partire da esso, poi torna nella sterminata
immensità dello spazio. Non vi basta questa spiegazione? Se volete saperne di
più potete sempre interrogare Sileno, il mitologico dio silvestre seguace di
Dioniso. Secondo ciò che scrive Nietzsche ne “La nascita della tragedia”, egli fornisce risposte schiette ed estremamente
sagge a chi lo interpella. Dovrete però procedere cautamente per essere certi
di non seccarlo con i vostri quesiti, perché le sue risposte possono raggelare
i cuori e terrorizzare le menti. Bene, sappiate che il famoso re Mida – più
noto per aver chiesto a Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che
toccava ed aver rischiato la vita per questa sua sete insaziabile di ricchezza
– è conosciuto anche per aver assillato con le sue domande Sileno stesso. Egli
voleva conoscere che cos’era «l’“ottimo
per l’uomo”». Deve averlo importunato un po’ troppo, perché – secondo
quello che riferisce Aristotele nell’ “Eudemo”
o “dell’Anima” – la divinità boschiva
gli ha risposto così: «Voi uomini, seme
effimero di un penoso destino e di una dura sorte, perché mi fate violenza e mi
costringete a dire cose che per voi sarebbe meglio non sapere? Quando, infatti,
si ignorano i propri mali, la vita è priva di dolore. Per gli uomini non si dà
affatto la cosa migliore fra tutte né tanto meno la possibilità di partecipare
alla natura dell’ottimo». Ma
doveva essere proprio scocciato e ha continuato: «Per tutti gli uomini e tutte le donne, l’ottimo in assoluto è non
essere nati. Dopo di che, la cosa migliore – la prima fra quelle che gli uomini
possono conseguire – è, una volta nati, morire al più presto». Questa
sentenza fa rabbrividire e spezza tutte le già precarie consolazioni umane. Tuttavia
quest’idea era tipica della tragedia greca. Si trova con accenti diversi in Eschilo,
in Sofocle e in Euripide. Nell’ “Edipo a
Colono” di Sofocle, il Coro,
riflettendo sulla condizione umana, afferma: «Molto meglio non essere nati. / Ma, una volta nati, / fare ritorno da
dove si è venuti / è destino ancora migliore». Una visione angosciosa della
vita, apparentemente negativa o più semplicemente “tragica”. Occorre dire che
alcuni filosofi antichi si sono ribellati a questa conclusione. Epicuro, ad
esempio, nella “Lettera a Meneceo” non
sopporta affatto chi, dopo aver echeggiato l’esito della tragedia ed esserne
stato sedotto, ripete agli altri uomini che sarebbe stato più conveniente «non essere nati». Si irrita, perché
ritiene che chi ragiona in questo modo non prenda la vita con serietà. Scrive
Epicuro: «Se ne è convinto, perché non
lascia subito la vita? Ne ha sempre la possibilità, se è davvero determinato a
farlo. Ma se dice tanto per dire, sono parole del tutto fuori luogo. Bisogna
poi tenere a mente che il futuro ci appartiene e insieme non ci appartiene: non
dobbiamo aspettarci che si realizzi immancabilmente, ma non dobbiamo nemmeno
disperare che esso si compia». L’uomo contemporaneo ha conservato qualcosa
della visione tragica dell’esistenza? Pensa davvero che ignorando i propri mali
la vita sia priva di dolore e che evitando di guardare alla propria essenza
effimera possa essere felice? Il filosofo Sossio Giametta – un autorevole traduttore
delle opere di Nietzsche in lingua italiana – nel libro “Grandi problemi risolti in piccoli spazi” ritiene che gli uomini abbiano
ribaltato l’antica sentenza tragica. Scrive infatti: «Quindi,
contrariamente a quello che dice “il saggio Sileno” al re Mida: “Il meglio è
per te [...] non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo
luogo migliore per te è morire presto”, la cosa migliore per noi è esistere
sempre, come Dio, e la cosa in secondo luogo migliore è esistere a lungo». Chissà
se Sileno – che conosceva certamente le aspirazioni degli uomini – avrebbe
potuto prevedere la loro irriducibile ostinazione a voler assomigliare agli dei.
Un caro saluto,
Alberto
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