«Contro il desiderio è
difficile combattere: a prezzo dell’anima acquista ciò che vuole», scrive
Eraclito nel VI sec. a. C. La riflessione sulla sete insaziabile che abita ogni
essere vivente attraversa tutta la storia della filosofia. I filosofi hanno
considerato il desiderio come struttura profonda dell’uomo, nella duplice
interpretazione di brama (impulsiva) e di aspirazione (desiderante): esso è
stato declinato in “epithymía” dai
greci, in “cupiditas” dal mondo
latino, in «conatus» da Spinoza, in «volontà» da Schopenhauer e Nietzsche, in
«Es» da Freud. Da Platone a Freud conosciamo
pertanto la potenza strutturante o destrutturante di tale forza. Platone
insegna che è il desiderio a muovere il soggetto e che la ragione non può fare
altro che cercare di regolare come può la sua potenza. E Freud dirà non solo
che «l’io non è padrone in casa propria»,
intendendo che il soggetto agisce sotto una potente spinta che non può arginare,
ma che persino il sogno ha a che fare
con il desiderio, in quanto «appagamento
camuffato di un desiderio rimosso». Tale brama scardina dunque l’Io, fa
saltare la parte organizzata della personalità, e chiede il proprio appagamento
in ogni modo: è potenza che ottiene ciò che vuole, persino a prezzo dell’anima,
in quanto è in grado di soverchiare la parte razionale. La ragione, infatti, evolutivamente
viene molto più tardi, la forza originaria è il desiderio. A mostrare la
complessità dell’uomo è Platone, che non si limita a distinguere tra ragione
(anima) e impulsi (desideri) e a proporre un dualismo fin troppo noto tra ragione
e passioni. Egli dice di più. Ossia che la natura umana è composta non da due,
ma da tra elementi imprescindibili. Nel “Fedro”,
uno dei dialoghi più belli dell’autore, egli afferma che l’anima è composta di
tre parti: una razionale, una irascibile e una concupiscibile. Egli parla
dell’anima con il mito della biga alata, facendo riferimento ad una coppia di
cavalli alati guidati da un auriga. I cavalli rappresentano le due dimensioni
del desiderio: quello bianco, la tendenza a creare la natura autentica del
soggetto che cerca la realizzazione di sé; quello nero, la propensione verso l’appagamento
immediato di natura istintuale. Il cavallo bianco è eccellente: «quello in miglior forma, è di figura dritta
e snella, ha la cervice alta, le froge (le narici) regali, il mantello bianco e gli occhi neri, ama la gloria temperata e
pudica, [e] ed è amico dell’opinione verace; lo si guida senza frusta solo con
l’incitamento e la ragione». L’altro, quello nero, è pessimo: «ha una struttura contorta e massiccia, messa
insieme non si sa come, ha forte cervice, collo tozzo, froge vili, mantello
nero ed occhi chiari e sanguigni, compagno di insolenza e di vanità, peloso
fino alle orecchie, sordo e a stento dà retta alle sferzate della frusta». Il
compito del cocchiere è difficile, perché deve mediare tra due forze. Così il
desiderio può essere rovinoso: può anche portare l’uomo alla dissipazione di sé
impedendogli di scoprire la sua vera natura, ed è per questo che la mancata
regolazione di esso e la sottomissione agli impulsi primitivi possono condurlo alla
rovina. Solo l’integrazione equilibrata tra i vari elementi della personalità –
come oggi si interpreta il mito platonico –, permette di realizzare la specifica
natura di ogni essere umano. C’è un altro modo, però, di intendere la frase di
Eraclito. Discende dalla traduzione del concetto di anima in “sostanza” immateriale. Ha certamente una
connotazione religiosa e richiama la condizione di un possibile commercio di
essa. Anche oggi, infatti, si usa l’antica espressione: «Vendere l'anima al diavolo», per descrivere più comunemente il
comportamento di chi accetta qualsiasi compromesso pur di trionfare. La
letteratura insegna che coloro che si sono serviti di ogni espediente per
appagare le loro ambizioni hanno ottenuto vantaggi apparenti ed hanno corrotto
in modo irrimediabile la loro anima per l'eternità. L’idea di vendere l’anima al
diavolo è stata rappresentata in maniera bellissima da Wolfgang Goethe nel “Faust”. E dopo di lui non solo grandi
letterati, ma anche straordinari musicisti, come Gounod (“Faust”), Liszt (“Mephistowalzer”)
e Berlioz (“La damnation de Faust”), hanno
elaborato il tema della dannazione dell’uomo che è disposto a mercificare se
stesso per ottenere ricchezza, fama o conoscenza. Nel 1947 Thomas Mann pubblica l’opera “Doctor Faustus. La vita del
compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico”. Egli narra la
storia del musicista Adrian Leverkühn che, come Faust, ha ottenuto dal demonio
anni di eccezionale attività artistica e fama in cambio della vendita dell’anima
e dunque della propria dannazione. Scrive Adrian Leverkühn: «volendo acquistar fama a questo mondo,
stipulato avea con lui una promessa e un patto, di maniera che tutto quanto
feci nello spazio di ventiquattr'anni e ciò che gli altri giustamente con
diffidenza osservarono poté avvenire meramente col suo aiuto ed è opera
diabolica, istillata dall'angelo del veleno». C’è dunque un desiderio che si
rivolge esclusivamente al possesso di qualcosa: tale impulso snatura l’uomo, perché
lo incatena al godimento e al consumo immediato. Ma c’è un desiderio che spinge
all’autorealizzazione: è l’energia che permette di autoregolarsi e di fare
della propria vita un’opera d’arte. In questo caso l’uomo non vende l’anima, la
realizza.
Un caro saluto,
Alberto
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