«L’uomo è
misura di tutte le cose» è la frase più famosa di Protagora, uno dei più
importanti esponenti della sofistica del V sec. a. C. Con essa il filosofo
intende dire che i criteri di giudizio sono originati dagli uomini e che non
esistono
principi universali per orientarsi né in campo conoscitivo né in quello
morale. Alla frase di Protagora è stata attribuita una pluralità di significati.
Con “uomo” si è inteso il singolo soggetto che percepisce gli
elementi della realtà e prova emozioni. Sappiamo che sapori, suoni e odori
appaiono diversi a ciascuno di noi e che le emozioni vengono vissute con varia
intensità. Quando nel “Teeteto” di Platone
viene discussa la tesi di Protagora, Socrate ricorda che lo stesso vento può
apparire freddo oppure no se chi è sottoposto alla sua azione è freddoloso o
meno. Gli uomini sondano pertanto la realtà a partire dalle sensazioni e le
sensazioni sono sempre filtrate da una specifica recettività individuale: è noto,
ad esempio, che sui gusti non si possa discutere («de gustibus disputandum non est»); o meglio, si può dialogare, ma
non è possibile trovare un accordo. Inoltre, le sensazioni producono opinioni
discordi sia nelle varie persone sia in un singolo soggetto in momenti
successivi. È esperienza comune che un alimento sembri dolce o salato se chi lo
assume ha la febbre o è sano. Ogni individuo è dunque vincolato dalla propria
rispondenza, positiva o meno, ad una sostanza o ad uno stimolo. Una seconda
ipotesi interpretativa mette in luce
come i valori scaturiscano dalla comunità
o dalla civiltà a cui si appartiene.
La cultura, l’ambiente, l’educazione, lo sviluppo, lo stato di benessere o meno
di un gruppo sociale, di una tribù o di un’etnia condizionano il giudizio di
ciò che è allettante o auspicabile. Erodoto, nel primo libro delle “Storie”, descrive le insolite abitudini
del popolo nomade dei Massageti. Egli scrive: «Quando un uomo massageta desidera una donna, appende la faretra davanti
al carro di lei e si unisce a lei senza preoccupazioni». Oppure: «quando uno divenga assai vecchio, tutti i
parenti riunitisi lo immolano e con lui anche capi di bestiame, e, cottene le
carni, banchettano. Questa è ritenuta da loro la fine più felice» (cap. I). Queste pratiche sono talmente ripugnanti che –
riferisce lo storico – «Dario
durante il suo regno, chiamati i Greci che erano presso di lui, chiese loro a
qual prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei propri padri morti: e quelli
gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto ciò» (cap. III). La constatazione
dell’irriducibile varietà culturale porta Erodoto a concludere che: «se uno facesse a tutti gli uomini una
proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben
considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che
le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte». Il metro di
giudizio delle azioni scaturisce pertanto anche dalla comunità di appartenenza.
E ovviamente da una specifica visione del mondo. Per i Greci, l’orizzonte
immutabile della natura è la misura dell’uomo; per i Cristiani, Dio è la misura
delle cose. Per l’uomo contemporaneo sono spesso la tecnica e il denaro ad
essere misura delle cose e delle persone: chi ha a disposizione tecnologia e capitale
e chi è più abile a servirsene è considerato più appetibile. Si è così capovolta
l’affermazione di Protagora: non è più l’uomo ad essere misura, perché la
tecnica e il denaro danno valore agli oggetti e agli uomini. Purtroppo, dove il
denaro diventa l’unico obiettivo a cui tutti gli altri sono subordinati, allora
vengono meno anche i valori esclusivamente umani. Questa idea è espressa chiaramente
da Raffaele Itlodeo, uno dei protagonisti dell’opera “Utopia” (1516) di Thomas Moore: «Se poi volete, signor Moro, che vi schiuda completamente il mio
pensiero, vi dirò che io sono convinto che […] dove tutto si misura soltanto col denaro, ivi non è possibile che in
tutto si agisca con giustizia e che tutto, e giustamente, fiorisca per il bene
comune». Non dobbiamo omettere né scordare che le ideologie totalitarie
hanno creduto di essere la misura della vita umana: misura del passato,
generando molteplici tipologie di revisionismo storico; del presente, veicolando
un’univoca visione del mondo; e del futuro, attribuendo importanza agli scopi che
si conciliavano con una certa dottrina. Da ultimo, “l’uomo” può essere considerato
come umanità, ossia come specie. La specie umana, infatti, dà
significato agli elementi della natura in funzione della propria sopravvivenza e i propri interessi spesso divergono da quelli delle altre specie. Nel corso
della storia è prevalso un eccessivo antropocentrismo nella declinazione della
proposizione di Protagora. Al di là degli interessi individuali e collettivi della
specie umana, oggi si fa gradualmente spazio l’attenzione alle altre forme di
vita. Anch’esse hanno la loro «misura
delle cose» che non può essere assoggettata all’interesse del più forte. Da
Peter Singer a Frans de Waal potremmo dire che «Invece di fare dell’umanità la misura di tutte le cose, dobbiamo
valutare le altre specie per ciò che esse sono». Dovremmo quindi essere in
grado di allargare la nostra prospettiva sul mondo e di non ridurre tutto all’interesse
esclusivo e miope di un unico protagonista.
Un caro saluto,
Alberto
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