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Cor-rispondenze

lunedì 8 febbraio 2021

So di non sapere

 


Il motto di Socrate non vale per accattivarsi i docenti durante un’interrogazione: «prof., come Socrate, so di non sapere», attendendo una valorizzazione di quanto timidamente esposto. In realtà, quando studente e docente si relazionano per indagare una tematica, entrambi sono consapevoli di non sapere. Forse lo studente è più concentrato su ciò che non ricorda della trama del libro, mentre il docente sa che ogni sintesi è una sistematizzazione più o meno sommaria della questione che si sta affrontando. Ed è ben consapevole che gran parte dell’argomento sfugge anche alla sua conoscenza, per quanto sondata e approfondita di anno in anno in tante letture. Nell’ “Apologia di Socrate”, scritta da Platone, si narra che Cherefonte un giorno chiese alla Pizia – la sacerdotessa di Apollo che dava i responsi nel tempio di Delfi – se vi fosse qualcuno più sapiente di Socrate. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente di lui. Socrate stesso è stupito e porta a testimonianza del responso dell’oracolo persino il fratello di Cherefonte che è presente mentre egli sta narrando questa storia ai suoi interlocutori. Socrate, però, non è ingenuo e si chiede: «Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma?». Già, perché in fondo si tratta di un enigma: tutti sanno che solo il dio è sapiente e Socrate professa apertamente di non sapere. Così inizia la sua ricerca («assai contro voglia»). Egli si reca da coloro che hanno la fama di essere sapienti con l’obiettivo di smentire l’oracolo, mostrando che vi sono persone più preparate di lui. Comincia ad interrogare un politico, «un brav’uomo» («era uno dei nostri uomini politici»). Socrate, tuttavia, si rende conto che il politico interrogato non è sapiente e prova a farglielo capire. Il risultato, ovviamente, è disastroso («venni in odio»). La conclusione di Socrate è che «quell’uomo credeva di sapere e non sapeva» […] «io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui». Poi si reca dai poeti, da quelli che scrivono tragedie e ditirambi, ma comprende che gli uomini che lo accompagnano ragionano meglio dei poeti stessi proprio sui temi che essi trattano con apparente abilità. Allora si reca dagli artisti, ossia dagli artigiani. Chi possiede un’arte è certamente sapiente in qualcosa. Tuttavia crede di essere sapientissimo anche su altri argomenti più complessi. Socrate deve concludere che «il difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza». Oggi potremmo dire che anche artigiani, scienziati,  tecnici e professionisti in generale possono cadere nella presunzione di sapere. Possedere ottime competenze in un determinato settore non è garanzia di saggezza su altri aspetti della vita: la conoscenza di se stessi, del bene individuale o collettivo. Il filosofo danese Sören Kierkegaard, nella tesi di laurea intitolata “Il concetto di ironia in riferimento a Socrate” (1841), ricorda che si può fingere di non sapere sapendo che non si sa, oppure si può fingere di non sapere sapendo che si sa. L’astuzia di Socrate è dunque una forma di ironia funzionale a decostruire le tesi dell’avversario per mostrare il proprio sapere o è un’ironia quasi naturale e genuina? Uno dei fondatori del Romanticismo, Friedrich Schlegel, considera l’ironia socratica come «involontaria», perché, secondo l’autore, è propria di chi interroga sapendo davvero di non sapere. E Sören Kierkegaard ritiene che «Il sapere di non sapere niente non è cioè, come normalmente s’immagina, il nulla puro e vuoto, ma il nulla del contenuto determinato». Egli intende dire che ogni contenuto finito è mancante, e che la formula “sapere di non sapere” è una forma di sapienza che come un fuoco tiene viva la ricerca in ogni uomo. Il numero delle stelle è pari o dispari? «So di non sapere», potremmo dire. Ma c’è un numero che le può numerare. E i numeri sono pari o dispari: quindi è possibile che prima o poi questa informazione sia disponibile. Ci sono così lacune che si possono colmare, conoscenze che si possono acquisire. Ma l’intento di Socrate è mostrare che la struttura umana è fatta in modo tale che non può giungere ad una definitiva e ultima conoscenza della realtà e dell’uomo stesso. Il vero ignorante è dunque colui che si accontenta di un nozionismo di superficie: non approfondisce e non sente il bisogno di indagare ulteriormente una problematica o un’esperienza. Per Socrate non esiste un sapere definitivo: di sé, dei valori e della vita. L’uomo deve lasciare aperta la porta della ricerca. Da questo punto di vista, anche la frase «Conosci te stesso» è un «enigma» o una prescrizione impossibile da realizzare. Perché ogni pretesa di ridurre al finito quell’anima infinita di cui diceva Eraclito è impossibile. Non c’è sapere definitivo neppure di sé stessi. Ci sono accenni, tracce di lettura, ma nessuna pretesa di esaurire la conoscenza. Altri filosofi diranno che le strutture stesse della nostra mente non è detto che siano uno specchio perfetto della realtà. Allora: «Ignoramus et ignorabimus», «ignoriamo ed ignoreremo», diceva Du Bois-Reymond nella seconda metà dell’Ottocento (1872). Ma è grazie a questa ignoranza gravida di sapere che gli uomini alimentano la loro imprescindibile e dinamica tensione per la conoscenza.

Un caro saluto, 

 Alberto

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