È probabilmente il più famoso dei motti antichi. Era scritto
sul tempio di Delfi, ed è considerata la più saggia prescrizione per avere una
buona vita: da Talete – uno dei Sette Savi a cui Diogene Laerzio attribuisce la
citazione – a Socrate, a cui risale la nostra prima conoscenza scolastica. Nel
corso della storia è stato variamente interpretato. Aristotele diceva che per
conoscere qualcosa dobbiamo partire dalle cause. Se voglio conoscere la statua
di Apollo è necessario che individui la materia di cui è composta (causa
materiale), la sua essenza – Apollo –, ossia ciò che la distingue da altri
protagonisti (causa formale); ma diceva che può essere utile anche sapere chi
l’ha fatta (causa efficiente) e per quale motivo (causa finale). Ora, oggi
sappiamo che la scienza ha fatto un passo in avanti per spiegare i fenomeni
naturali, concentrandosi solo sulla causa efficiente. È il modo corretto per
acquisire nuove nozioni nell’ambito della fisica: ci si chiede come viene
prodotto un fenomeno e non per quale scopo si verifica o quale sia la sua
essenza. Ma nel tentativo di comprendere se stessi può essere utile ripercorrere
il sentiero tracciato da Aristotele e considerare le molteplici dimensioni che
concorrono a formare un individuo. Ho pensato di dividere questa riflessione in
tre parti: una legata alla causa efficiente, l’altra legata all’essenza
dell’uomo (e alla materia) e l’ultima alla finalità che gli uomini si danno per
vivere. Va da sé che è difficile conoscere se stessi, per la semplice ragione
che ogni essere umano cambia nel corso del tempo e si conosce a partire dalla
cultura collettiva e famigliare, dalla genetica e dal temperamento, ma anche
dagli scopi che attribuisce alla proprio percorso nel mondo. Per conoscere se
stessi è importante il passato? In un certo senso sì, certamente; perché consente
una sorta di epifania sull’origine e dunque contribuisce in modo rilevante alla
comprensione di sé. C’è un passato collettivo e c’è un passato individuale. Ognuno
di noi vive in una cultura e in una tradizione: Italiani, Cinesi, Egiziani non
hanno lo stesso retroterra culturale. Dobbiamo pertanto tenere conto della
formazione collettiva, perché di solito gli uomini si descrivono e si orientano
all’interno di grandi tradizioni. I filosofi le chiamano grandi narrazioni
del mondo («metanarrazioni»). Il filosofo Umberto Galimberti
ha tradotto questo concetto in questo modo: «Quando il mondo era descritto religiosamente eravamo
"religiosi", quando era descritto razionalmente eravamo
"illuministi", ora che è descritto in modo multimediale siamo
perennemente "esposti" e al tempo stesso avvolti da quel volume di
immagini e parole in cui ciascuno può reperire una sua provvisoria identità, un
proprio nome per un giorno». La tradizione in cui ci troviamo ci fornisce
il quadro entro cui comprendiamo chi siamo e il senso del mondo. È pertanto
molto importante conoscere il passato che ci ha formati. Ma c’è anche una
storia individuale da cui si origina un’ulteriore acquisizione. Il latinista Ivano
Dionigi, in “Eredi. Ripensare i padri”
(Bur 2012), ha offerto un bellissimo esempio tratto dall’ “Odissea”. Nel primo libro dell’opera, al suo arrivo in Itaca la dea
Atena – sotto le sembianze dell’eroe Mentes – si imbatte in Telemaco, il
giovane figlio di Odisseo. Mentes pronuncia queste parole: «Ma tu dimmi questo, e parlami senza
menzogne, / se tu, così grande, sei figlio suo, sei il figlio di Odisseo. / È
straordinario quanto nel volto, negli occhi belli sei simile / a lui». E
Telemaco risponde: «mia madre mi dice
nato da lui; ma io, per me, / non lo so: nessuno da solo conosce il suo seme».
Nessuno da solo conosce il suo seme, ma quando la discendenza viene rivelata, ogni
persona instaura una relazione con il proprio padre e con la propria vicenda famigliare.
Questo permette di intuire anche una parte della propria vita: quella che si riceve
dai genitori e che nello stesso tempo influenza e plasma l’individuo. Lo
storico Alessandro Barbero, nell’ultimo libro dedicato a Dante (Laterza 2020),
ricorda che «Quando Dante, nel X
dell’Inferno, incontra un esponente di quella che a Firenze era considerata la
più antica e orgogliosa nobiltà cittadina, gli Uberti, l’interlocutore, che non
lo conosce, gli chiede per prima cosa da che antenati discende: “Chi fuor li
maggior tui?” (Inf. X 42)». E più avanti spiega che: «Si può essere nobili in due modi: o perché si è virtuosi, o perché i
propri maggiori sono stati virtuosi». Si appartiene dunque necessariamente ad
una tradizione. Ma un uomo può aver ereditato dai propri avi sia del prestigio sia
del disprezzo. Dagli antenati si eredita sempre qualcosa: non solo la genetica,
dunque, ma anche una storia più o meno edificante. Anche in modo inconsapevole.
Il filosofo tedesco Günther Anders, allievo di Heidegger, a partire dalla fine
degli anni Sessanta inviò un paio di lettere a Klaus Eichmann, il figlio del criminale
nazista Adolf Eichmann (“Noi figli di
Eichmann”, Giuntina 2007). Anche questo giovane aveva ereditato una storia, purtroppo non
certo edificante. Anders scrisse che «l’origine
non è una colpa», ma sapeva bene che anche Klaus avrebbe dovuto fare i
conti con la realtà da cui proveniva. Almeno per prenderne le distanze e per costruire
la propria vita in modo libero e responsabile.
Un caro saluto,
Alberto
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