Se la tradizione culturale e la storia famigliare contribuiscono alla formazione di ciò che siamo, per conoscere noi stessi dovremmo – seguendo il suggerimento di Aristotele – avere un’idea della materia di cui siamo composti, ma soprattutto stabilire l’essenza che ci definisce, ossia individuare ciò che ci contraddistingue e ci rende unici. A dire il vero, la partenza è difficoltosa, perché già della materia sappiamo poco. Per carità: tessuti, ossa, sangue, fluidi corporei. Le radiografie talvolta svelano anche qualche anomalia della parte interna del corpo: un rene a ferro di cavallo, la maggiore o minore salute dei polmoni, l’inquietante ispessimento di qualche vena. Anche se siamo sinceramente interessati a questa conoscenza, e affascinati soprattutto dalla complessità dell’assetto biologico che ci compone, tuttavia, quando vogliamo sapere chi siamo, non ci riferiamo solo alla natura organica, ma ci chiediamo o in termini generali: «che cos’è l’uomo?» (la sua essenza), o in termini particolari: «chi sono io veramente?», «chi è questo soggetto che parla, pensa, sente e vuole?» (la mia essenza). La prima domanda arriva da lontano: è quella che pone l’autore del Salmo 8 della Bibbia rivolgendosi a Dio. «Che cos’è l’uomo perché ti ricordi di lui? Che cos’è il figlio d’uomo, perché di lui ti prenda cura?». Essa tiene aperto un rapporto con l’infinito o con Dio. I Greci concepivano l’essenza dell’uomo in modo diverso, perché consideravano l’uomo una creatura caduca. E il motto «Conosci te stesso» non indicava ovviamente la padronanza di nozioni anatomiche, ma neppure una conoscenza introspettiva di sé, come oggi, spesso, si tende a credere. Jean-Pierre Vernant, uno dei grandi studiosi del mondo antico, ne “L’uomo greco” ricorda che «Conosci te stesso» non raccomandava il ripiegamento dell'uomo su se stesso per scoprire un presunto “vero” io, una sorta di identità profonda del soggetto. Egli spiega che il motto dell’oracolo voleva dire: «impara a conoscere i tuoi limiti, sappi che sei un uomo mortale, non cercare di metterti sullo stesso piano degli dei». Gli uomini sono dunque chiamati ad avere ben presente che la loro esistenza è effimera e che il tempo della loro progettazione e del loro agire è circoscritto. Questo concetto verrà ripreso qualche secolo dopo anche da Lucio Anneo Seneca. Nella “Consolazione a Marcia”, nel tentativo di lenire alla donna il dolore per la morte del figlio, il filosofo scrive: «E che cosa è questo dimenticare la condizione tua e di tutti? Sei nata mortale ed hai partorito dei mortali; sei un corpo infermo e caduco, pieno di disturbi, e ti sei illusa di portare, in un materiale tanto debole, degli esseri robusti ed immortali?». Più avanti le sue parole diventano memorabili: «Che cos'è l'uomo? Un vaso che può andare in frantumi ad ogni scossa e ad ogni mossa. Non occorre una grande bufera per disperderti: al primo cozzo, ti sfascerai. […] E ci stupiamo che codesto essere subisca la morte, conseguenza di un solo rantolo? Per farlo cadere, ci vuole forse un grande sforzo? Un odore, un sapore, la stanchezza, la veglia, una bevanda, un cibo, una di quelle cose senza le quali non può vivere, possono dargli la morte». Nel nostro tempo, Elie Wiesel, nel libro “Le porte della foresta”, ha usato parole meravigliose per accennare all’ambivalenza della natura umana che oscilla tra dramma e bellezza. Egli scrive che l’uomo, da una parte, è «speranza divenuta polvere», ma poi afferma che è vero anche il contrario, ossia che esso è «polvere divenuta speranza». A questo punto, se è difficile stabilire l’essenza generale dell’uomo, cosa possiamo dire su quella specifica di ogni individuo? Che cosa significa «Conoscere se stessi?». Il problema della conoscenza di sé ci espone subito ad alcune difficoltà. Mentre gli oggetti, in genere, non mutano la loro essenza: una biro continua ad essere una biro nel corso degli anni; può funzionare o meno, ma non può decidere di sé e alterare la propria struttura. Così un albero di albicocco. Può portare frutti o seccare, ma non cambiare la propria natura. L’uomo, invece, non ha un’essenza predefinita e non si determina una volta per tutte. Ogni essere umano ha persino una diversa comprensione di sé a dieci, a trenta o a cinquanta anni. È un fatto che dipende dalla crescita fisica, dalle relazioni interpersonali, dalle letture, dalla formazione, dalla cultura, dai successi e dagli insuccessi nella professione e nella vita di relazione, dalle scelte e da infiniti altri aspetti. Ogni elemento modifica l’essenza dell’uomo e ostacola una comprensione definitiva. Conoscere se stessi è più problematico che conoscere un oggetto finito e immutabile nel tempo. La prescrizione dell’oracolo sollecita allora una sorta di «conoscenza itinerante» che accompagna ogni momento della vita. In fondo, non finiremo mai di conoscere veramente chi siamo. Ci sono situazioni in cui scopriamo le nostre debolezze o il nostro coraggio: di fronte ad una malattia o a situazioni logoranti. Come ci saremmo comportati in guerra o in un campo di concentramento? In genere la narrazione che ognuno dà di sé è positiva. Blaise Pascal diceva che «lavoriamo incessantemente ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario»: siamo buoni lavoratori, buoni genitori, buoni amici, buoni mariti o compagni. Ma quando cambia il contesto, scopriamo altri aspetti di noi. Possiamo fidarci del nostro sguardo per comprendere chi siamo?
Un caro saluto,
Alberto
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