Quando Ulisse e i suoi compagni sbarcano nella
terra dei Ciclopi sono immediatamente catturati da Polifemo che li tiene
prigionieri dentro una caverna la cui uscita è ostruita da un masso. Mentre Ulisse
porge del vino al gigante, quest’ultimo vuole conoscere il nome dell’uomo che
gli ha offerto da bere. Ulisse allora risponde: «Ciclope, tu mi domandi il mio nome. E io te lo dirò. [...] Nessuno è il mio nome:
Nessuno mi chiamano la madre e il padre e anche tutti
i compagni». Polifemo ribatte: «Nessuno, io, per
ultimo me lo mangerò». Ma quando riesce a tornare sulla nave, Ulisse non afferma
più di essere “Nessuno”, ma urla il
proprio nome: «Ciclope, se qualcuno ti
domanda, tra gli uomini mortali, di questo sconcio accecamento dell’occhio,
dirai che ti accecò Odisseo, il distruttore di città: sì, il figlio di Laerte,
che ha in Itaca le sue case». Chi è l’uomo alla nascita? Potremmo parafrasare
questa storia e rispondere allo stesso modo di Ulisse lasciando intendere che è
“Nessuno”, ma sappiamo che prima di
congedarsi dalla vita quasi ogni uomo gradirebbe rispondere in modo cristallino
e riferire una precisa identità: vorrebbe infatti poter dire chi è e chi è
stato. L’identità è l’essenza dell’uomo. E poiché l’essenza (chi siamo) non è
stabilita una volta per tutte nel momento in cui veniamo al mondo – come
avviene per una rosa o un albero –, per comprendere se stessi è importante
scorgere il movimento della propria vita: la direzione del sentiero che
infinite scelte più o meno meditate e ripetute tracciano, giorno dopo giorno,
nella formazione del carattere, nella decisione della professione, nel modo di
guardare il mondo e di stare al mondo. Molti filosofi del Novecento hanno ribadito
che l’essenza dell’uomo non è fissata una volta per tutte,
ma si determina gradualmente nel corso dell’esistenza. Martin
Heidegger in “Essere e tempo” (1927) sostiene
che «l’essenza dell’Esserci [dell’uomo] consiste nella sua esistenza» e qualche
anno dopo Jean Paul Sartre nell'opera “L’esistenzialismo
è un umanismo” (1946) afferma che «l’esistenza
precede l’essenza». Entrambi – anche se seguiranno strade molto diverse – ritengono che le possibilità che si aprono all’uomo gli consentono di determinarsi. Sartre
intende dire che l’uomo «si trova, sorge
nel mondo, e [...] si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione
esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà
solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto». L’uomo diventa dunque quello
che “vuole” essere o, per dirla con le parole del filosofo, «l’uomo non è altro che ciò che si fa».
C’è dunque una sorta di tensione essenziale che accompagna la vita: tra tante
possibilità, l’uomo è libero di scegliere ed è responsabile di ciò che diviene e
dell’esistenza che realizza. Indagare le ragioni che spingono a prediligere alcuni
valori rispetto ad altri significa mettere in luce gli obiettivi individuali
che rendono unica la vita di ciascuno (“la causa finale”). Allora: è davvero
possibile conoscere se stessi? E soprattutto: è possibile farlo da soli? C’è un
bel dialogo di Platone intitolato “Alcibiade”
in cui Socrate e Alcibiade si interrogano sulla sentenza dell’oracolo di Delfi e
sulla possibilità di conoscere l'anima. Socrate dice: «Hai osservato poi che a guardare qualcuno
negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno
specchio, che noi chiamiamo pupilla perché è quasi un’immagine di colui che la
guarda». « – È vero –», risponde il
giovane amico. E Socrate allora conclude: «Dunque
se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio, con
la quale anche vede, vedrà se stesso. [...] Ora, caro Alcibiade, anche l’anima se vuole conoscere se stessa, dovrà
fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù
dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile». Come
guardando attentamente nel foro al centro dell’iride si vede una piccola
immagine di sé – e questo è il motivo del nome “pupilla”, “bambina” – così
attraverso l’altro è possibile vedere riflessa non solo la propria immagine
fisica, ma la natura della propria “anima”.
Forse l’uomo sarà sempre un «mostro
incomprensibile», come diceva Pascal, ma è certo che attraverso il rapporto
con l’altro ogni individuo matura un’esperienza di sé. Perché l’uomo è
relazione: con il passato, grazie al legame con la civiltà a cui appartiene e con
la propria storia famigliare; con il presente, nei nessi inesauribili con il
mondo fisico e interpersonale; e con il futuro, nel riferimento agli obiettivi
e ai valori in cui crede. Da sempre, dunque, egli si comprende e si determina
nella relazione. Quel signor “Nessuno”,
che «all’inizio non è niente», impara
qualcosa di sé proprio mentre quotidianamente muta, si forma, si educa, si
corregge, si peggiora o si migliora. La conoscenza di sé, per quanto
approssimativa, se da una parte non è riconducibile alla conoscenza di un
oggetto del mondo, dall’altra non è neppure un’impresa del tutto impossibile. È
una «conoscenza itinerante», paziente e scrupolosa che accompagna l’uomo per
tutta la vita e che non si esaurisce mai. Chi ha chiaro che tale sapere passa attraverso la relazione con il mondo e con il prossimo, forse alla fine
della propria vita potrà dichiarare con maggiore o minore lealtà – come Ulisse – chi era o chi aveva immaginato di essere.
Un caro saluto,
Alberto
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