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Cor-rispondenze

lunedì 8 marzo 2021

Conosci te stesso 3/3

 


Quando Ulisse e i suoi compagni sbarcano nella terra dei Ciclopi sono immediatamente catturati da Polifemo che li tiene prigionieri dentro una caverna la cui uscita è ostruita da un masso. Mentre Ulisse porge del vino al gigante, quest’ultimo vuole conoscere il nome dell’uomo che gli ha offerto da bere. Ulisse allora risponde: «Ciclope, tu mi domandi il mio nome. E io te lo dirò. [...] Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano la madre e il padre e anche tutti i compagni». Polifemo ribatte: «Nessuno, io, per ultimo me lo mangerò». Ma quando riesce a tornare sulla nave, Ulisse non afferma più di essere “Nessuno”, ma urla il proprio nome: «Ciclope, se qualcuno ti domanda, tra gli uomini mortali, di questo sconcio accecamento dell’occhio, dirai che ti accecò Odisseo, il distruttore di città: sì, il figlio di Laerte, che ha in Itaca le sue case». Chi è l’uomo alla nascita? Potremmo parafrasare questa storia e rispondere allo stesso modo di Ulisse lasciando intendere che è “Nessuno”, ma sappiamo che prima di congedarsi dalla vita quasi ogni uomo gradirebbe rispondere in modo cristallino e riferire una precisa identità: vorrebbe infatti poter dire chi è e chi è stato. L’identità è l’essenza dell’uomo. E poiché l’essenza (chi siamo) non è stabilita una volta per tutte nel momento in cui veniamo al mondo – come avviene per una rosa o un albero –, per comprendere se stessi è importante scorgere il movimento della propria vita: la direzione del sentiero che infinite scelte più o meno meditate e ripetute tracciano, giorno dopo giorno, nella formazione del carattere, nella decisione della professione, nel modo di guardare il mondo e di stare al mondo. Molti filosofi del Novecento hanno ribadito che l’essenza dell’uomo non è fissata una volta per tutte, ma si determina gradualmente nel corso dell’esistenza. Martin Heidegger in “Essere e tempo” (1927) sostiene che «l’essenza dell’Esserci [dell’uomo] consiste nella sua esistenza» e qualche anno dopo  Jean Paul Sartre nell'opera “L’esistenzialismo è un umanismo” (1946) afferma che «l’esistenza precede l’essenza». Entrambi – anche se seguiranno strade molto diverse – ritengono che le possibilità che si aprono all’uomo gli consentono di determinarsi. Sartre intende dire che l’uomo «si trova, sorge nel mondo, e [...] si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto». L’uomo diventa dunque quello che “vuole” essere o, per dirla con le parole del filosofo, «l’uomo non è altro che ciò che si fa». C’è dunque una sorta di tensione essenziale che accompagna la vita: tra tante possibilità, l’uomo è libero di scegliere ed è responsabile di ciò che diviene e dell’esistenza che realizza. Indagare le ragioni che spingono a prediligere alcuni valori rispetto ad altri significa mettere in luce gli obiettivi individuali che rendono unica la vita di ciascuno  (“la causa finale”). Allora: è davvero possibile conoscere se stessi? E soprattutto: è possibile farlo da soli? C’è un bel dialogo di Platone intitolato “Alcibiade” in cui Socrate e Alcibiade si interrogano sulla sentenza dell’oracolo di Delfi e sulla possibilità di conoscere l'anima. Socrate dice: «Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla perché è quasi un’immagine di colui che la guarda». « – È vero –», risponde il giovane amico. E Socrate allora conclude: «Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio, con la quale anche vede, vedrà se stesso. [...] Ora, caro Alcibiade, anche l’anima se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile». Come guardando attentamente nel foro al centro dell’iride si vede una piccola immagine di sé – e questo è il motivo del nome “pupilla”, “bambina” – così attraverso l’altro è possibile vedere riflessa non solo la propria immagine fisica, ma la natura della propria “anima”. Forse l’uomo sarà sempre un «mostro incomprensibile», come diceva Pascal, ma è certo che attraverso il rapporto con l’altro ogni individuo matura un’esperienza di sé. Perché l’uomo è relazione: con il passato, grazie al legame con la civiltà a cui appartiene e con la propria storia famigliare; con il presente, nei nessi inesauribili con il mondo fisico e interpersonale; e con il futuro, nel riferimento agli obiettivi e ai valori in cui crede. Da sempre, dunque, egli si comprende e si determina nella relazione. Quel signor “Nessuno”, che «all’inizio non è niente», impara qualcosa di sé proprio mentre quotidianamente muta, si forma, si educa, si corregge, si peggiora o si migliora. La conoscenza di sé, per quanto approssimativa, se da una parte non è riconducibile alla conoscenza di un oggetto del mondo, dall’altra non è neppure un’impresa del tutto impossibile. È una «conoscenza itinerante», paziente e scrupolosa che accompagna l’uomo per tutta la vita e che non si esaurisce mai. Chi ha chiaro che tale sapere passa attraverso la relazione con il mondo e con il prossimo, forse alla fine della propria vita potrà dichiarare con maggiore o minore lealtà – come Ulisse – chi era o chi aveva immaginato di essere.

Un caro saluto,

Alberto


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