La morale di Socrate contiene indubbi elementi di novità
rispetto alla mentalità greca. Uno di questi è la massima secondo cui «è preferibile subire il male piuttosto che
commetterlo». Si tratta di un principio morale, naturalmente, e non ha a
che fare con la sfera del diritto. Il male in un ordinamento giuridico civile
va punito in base alla sua entità, dunque per gradi: maggiore o minore è il
danno, maggiore o minore sarà la pena. Ma la scelta di Socrate si riferisce al modo
più opportuno di amministrare il proprio comportamento: qual è il modo migliore
di vivere, di stare al mondo, di reagire alle azioni altrui? Ognuno,
naturalmente, può scegliere di ribellarsi, di contrastare o di anticipare
l’avversario compiendo un’ingiustizia, mentre, secondo Socrate, chi si astiene
dal compiere il male si trova in una condizione privilegiata: non solo è
virtuoso, ma è più felice. È una credenza che si lega alla sua concezione della
virtù: secondo il filosofo ateniese solo l’uomo virtuoso e giusto può essere soddisfatto,
appagato e felice, mentre chi si comporta in modo immorale ed ingiusto, oltre
ad abbruttire la propria anima, con il passare del tempo renderà la propria
esistenza povera, sventurata e, pertanto, infelice. L’opera di riferimento è il
“Gorgia” di Platone. Socrate dialoga
con Polo di Agrigento, allievo del grande sofista a cui è intitolato il libro. Egli
afferma dunque che «il male supremo che
ci possa capitare è quello di commettere ingiustizia». Polo, come forse ogni
uomo comune, non nasconde una certa diffidenza e si chiede come sia possibile
che compiere un’ingiustizia sia da considerarsi un male così grande. Non è forse
peggio dover subire un male e affliggersi per l’ingiustizia altrui? Socrate si oppone
a questa visione – ovviamente non vorrebbe né patire né commettere soprusi o ingiustizie
– ma, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe subire il male piuttosto che
compierlo. Per Polo si tratta di una stravaganza o di un paradosso. Basta infatti
conoscere un po’ gli uomini per sapere che molte persone pur commettendo abusi o
prepotenze sono felici. Per contrastare quindi il motto socratico, apparentemente
bizzarro, Polo evoca la storia di Archelao – figlio di Perdicca – governatore
della Macedonia. Sostiene che non avrebbe dovuto ottenere il potere, perché
figlio di una donna schiava di Alceta, fratello di Perdicca. Quindi, secondo il
diritto, anche lui avrebbe dovuto essere considerato uno schiavo. Un giorno,
però, Archelao invita Alceta con il pretesto di restituirgli il governo e dopo averlo
ospitato lo fa ubriacare, lo sgozza e lo fa sparire. Polo afferma, ironicamente,
che compiuto quel delitto Archelao «non
si accorse di essere diventato estremamente infelice e non si pentì». E
dopo poco tempo, invece di crescere onestamente suo fratello – figlio legittimo
di Perdicca – un fanciullo di sette anni cui secondo giustizia sarebbe spettato il
governo, lo getta in un pozzo e lo fa annegare. Poi si reca dalla madre,
Cleopatra, e le dice che il ragazzo inseguendo un’oca è precipitato in un pozzo
ed è morto. Alceta, pur commettendo gravissimi delitti, è riuscito a sfuggire alla
giustizia, a diventare capo di un immenso regno e ad avere ampi poteri. Non è affatto
disgraziato, ma è felice: pare persino che molti macedoni vorrebbero essere al
suo posto, godere della sua agiatezza e del suo ruolo di comando. Socrate allora
interviene e chiede al suo interlocutore di individuare i mali dell’uomo. Entrambi
concordano che questi sono la povertà, la malattia e l’ingiustizia. I primi due
sono mali del corpo, il terzo è un male dell’anima, in fondo il più brutto dei
mali, perché chi è ingiusto provoca danni non solo agli altri ma anche a sé. Allora
Socrate ricorda che gli uomini afflitti dalla malattia sono di solito disponibili
a sopportare qualche dolore pur di tornare sani, mentre chi, al contrario, contraendo
una malattia si volesse sottrarre al giudizio dei medici non potrebbe guarire e
farebbe del male a se stesso. Analoga è la situazione per i mali dell’anima: è
necessaria l’azione della giustizia per fare in modo che l’anima torni ad
essere sana. Se liberarsi dalla malvagità significa diventare migliori, sottrarsi
alla pena rivela, secondo Socrate, il perdurare del male. Come l’antica
crematistica – l’arte di saper produrre ricchezza – libera l’uomo dalla povertà
e la medicina dalle malattie, la giustizia libera l’uomo dal vizio e
dall’ingiustizia. Ora si può cercare di essere retti, perché si teme un
giudizio. Platone mette infatti in bocca a Socrate queste parole: «guardo di fare in modo di potere un giorno
mostrare al giudice quanto più sana è possibile l’anima mia», oppure si può
preservare la propria anima sul sentiero della giustizia, perché si pensa che
sia un buon modo di sovrintendere il proprio viaggio individuale senza doversi mai
dolere delle proprie azioni. È una decisione morale: l’uomo sceglie di
comportarsi bene perché vuole conservare la rettitudine nel corso del tempo. In
questo caso, la più grande soddisfazione per un uomo virtuoso consiste nel riuscire
ad essere giusto anche in mezzo a persone corrotte, arriviste e malvage. Una
vita buona diventa allora una vita bella, ed è per questo che produce felicità.
Chissà se la psiche dell’uomo contemporaneo è ancora in grado di registrare che
l’ingiustizia lo abbruttisce e lo rende misero in quanto assoggettato al male.
Un caro saluto,
Alberto
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