«Una vita
senza ricerca non è degna di essere vissuta», afferma Socrate nell’ “Apologia” scritta da Platone. Quale vita
è degna di essere vissuta? Il tema in gioco non è certo una più o meno
inquietante riflessione sul diritto alla vita. Dato per scontato che ogni vita ha
valore, deve essere garantita e tutelata, ma anche assistita nel suo divenire e
nel suo sviluppo, c’è un modo di chiedersi quale condotta maggiormente si addica
ad un uomo razionale. Qual è il modo più decoroso di vivere, lo stile con cui
affrontare il percorso più o meno lungo che ci attende? Potremmo ribaltare la
domanda e individuare quegli elementi la cui mancanza impedisce la piena
realizzazione della vita. Forse «una vita
senza amore», «senza amicizia», «senza affetti» è meno degna di essere
vissuta? Percepiamo immediatamente che c’è del vero in ogni sentenza, perché sappiamo
quanto siano vitali l’amore, l’amicizia e le relazioni, e quanto sia dolorosa
la loro assenza. Ma potremmo annoverare altre privazioni: «senza lavoro», «senza diritti»,
«senza salute», «senza denaro», «senza prospettive»,
«senza libertà» e continuare ad elencare
molte altre carenze fondamentali. È pertanto necessario intenderci sul
significato da attribuire all’aggettivo “degno”. Se intendiamo degno nel senso
di dignitoso, allora ci riferiamo alla qualità della vita, e affermiamo
giustamente che una vita propriamente umana è tale solo se beneficia di diritti,
libertà e relazioni. Ma se intendiamo “degno” in riferimento al modo più opportuno
per ogni singolo uomo di condurre la propria vita, allora ci accorgiamo che, anche
con più o meno diritti, libertà e relazioni soddisfacenti, ciò che è specifico
dell’uomo è l’uso del pensiero in ogni occasione e in qualunque condizione egli
sia costretto a vivere. Si può infatti essere privati provvisoriamente della
libertà esteriore, ma non di quella interiore di pensiero; si può godere di
scarsa salute, ma si possono esercitare adeguatamente le proprie facoltà
razionali; si può beneficiare di un numero modesto di diritti e, nonostante
questo, essere in grado di ideare soluzioni per creare nuovi ordinamenti
giuridici o correggere quelli esistenti. Secondo Socrate, dunque, non è la
condizione che ci è capitata ad essere indegna, ma sono l’assenza di pensiero,
di ricerca razionale e di una costante tensione verso la verità a svilire
l’uomo. Tutti sanno che Socrate non ha lasciato scritti e non ha veicolato una
concezione del mondo definitiva, ma ha messo in evidenza il modo in cui egli
credeva fosse necessario disporsi nei confronti della vita. Voleva insegnare
che la ricerca è più importante delle opere stesse. Non poteva fare a meno
della ricerca, perché diceva che «non è
possibile io viva quieto», in quanto questo avrebbe significato «disobbedire al dio», alla sua chiamata
interiore che gli imponeva di aiutare il prossimo a non accontentarsi dell’ovvietà,
dell’abitudine, della routine, delle tradizioni e dei costumi. Se uno vuole avvicinarsi
a Socrate non deve imparare e replicare una “dottrina”, ma deve abbracciare un
metodo: la pratica costante dell’indagine. Egli in fondo non cercava ripetitori
o followers, ma valorizzava le
persone per la loro capacità di generare un dialogo costante finalizzato alla
conoscenza della verità; ha rinunciato alla fama per mostrarci uno stile, ha rifiutato
la risonanza e la popolarità delle sue intuizioni, affinché considerassimo che
il bene maggiore è «ragionare ogni giorno
della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far
ricerche su me stesso e sugli altri»,
e questo perché «una vita che non faccia di cotali ricerche
non è degna d’esser vissuta». Socrate è così fortemente convinto
dell’importanza della ricerca che, nel momento in cui viene condannato a morte,
chiede ai suoi concittadini di esigere verso i propri figli quello che lui ha
richiesto alle persone che ha incontrato: rinunciare all’apparenza e pretendere
la verità. Nelle ultime pagine dell’ “Apologia”
egli infatti afferma: «Ora io a costoro
non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando siano fatti
grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi fastidi che io
cagionavo a voi, se a voi sembra si diano cura delle ricchezze o di beni
altrettali piuttosto che della virtù; e se diano mostra di essere qualche cosa
non essendo nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non curino ciò
che dovrebbero e credano valer qualche cosa non valendo nulla. Se così farete,
io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che avessi: io e i miei figlioli».
È il più bel testamento non solo di un filosofo, ma di un padre, che non ha
come obiettivo quello di lasciare in eredità ai propri figli vasti terreni,
colossali ricchezze o prestigiose posizioni di potere, ma un bene più prezioso:
la ricerca dell’autenticità. Poiché questo processo di “umanizzazione” è lungo
e il risultato è arduo da conseguire, Socrate ritiene che debba essere
coinvolta la comunità intera. La ricerca rende allora la vita degna di essere
vissuta perché rappresenta la modalità corretta di disporsi in qualunque tipo
di relazione: d’amore, di amicizia, di lavoro o nel campo del sapere più in
generale, perché permette di non cristallizzare le relazioni né la conoscenza: di
non trasformare gli altri in oggetti per i nostri fini, di vincere i pregiudizi
sociali e le ostinazioni culturali.
Un caro saluto,
Alberto
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