Sia Platone sia Aristotele ritengono che la filosofia abbia avuto inizio dalla meraviglia. Nel “Teeteto” Platone mette in bocca a Socrate queste parole: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo». E sulla stessa linea è Aristotele, che nel primo libro della “Metafisica” scrive: «infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto». Quante volte abbiamo intuito questa verità. Di fronte al fascino di un paesaggio: dallo scenario mozzafiato che si apre da un’altura allo spettacolo di luci e colori del mare calmo o burrascoso, apparentemente senza confini; dalla sensazione di pace di una passeggiata nel bosco all’incanto dello sguardo perso nel cielo stellato, sensazione tanto cara anche a Kant. Siamo deliziati dalla natura e dalla vita, ammaliati di fronte al miracolo dell’esistenza: la storia della filosofia è in fondo un elogio di tali fenomeni. Per citare due grandi autori, vale la pena evocare lo stupore di Leibniz quando scrive alla regina Sofia Carlotta di Prussia: «Tutto ciò che ne segue di sorprendente è che le opere di Dio sono infinitamente più belle e più armoniche di quanto non si fosse creduto» o quello di Wittgenstein: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Ma ogni uomo è suggestionato dal prodigio della vita nelle sue molteplici forme e dalla bellezza della natura che prima ci sorprende e poi ci zittisce. Sbalorditi di fronte alla complessità e alla potenza della vita, alla sua unicità e inimitabilità restiamo prima disorientati, senza fiato e senza parole, ma poi ci poniamo delle domande. La vita viene ripresa nel pensiero o, per dirla con Hegel, «l’esistenza immediata si ribalta nel pensiero». La ragione di fronte alla realtà si attiva e scruta pazientemente. Forse è proprio così: abbiamo cominciato a pensare perché siamo stati “gettati” nella vita, ma quando abbiamo aperto gli occhi siamo rimasti spiazzati dalla sua bellezza e sedotti dalla sua armonia. Non ci siamo limitati a sognare e ad ammirare il piccolo luogo in cui siamo venuti al mondo, ma abbiamo cercato di produrre risposte plausibili per l’universo che provvisoriamente ci ospita. Secondo Aristotele l’abbiamo fatto «con lo scopo di sfuggire all’ignoranza». Non c’è dubbio, e probabilmente siamo un po’ tutti d’accordo con questa idea. L’incanto del mondo attiva la curiosità e sollecita il desiderio di sapere. L’origine greca della parola meraviglia, “thauma”, ha tuttavia un significato ambivalente. Indica un profondo senso di vertigine: un insieme di compiaciuto smarrimento di fronte alla realtà e di profondo sconvolgimento di fronte all’imprevisto. Il filosofo italiano che forse ha prestato più attenzione all’origine di questa parola è il bresciano Emanuele Severino. In molte opere egli ha evidenziato che “thauma” non denota solo meraviglia («è una traduzione che porta fuori strada»), ma anche terrore; il terrore di fronte a ciò che angoscia. Quali elementi angosciano l’uomo? Il dolore e la morte. Di fronte a tali realtà gli uomini non si sarebbero più accontentati delle opinioni veicolate dai miti, ma avrebbero sentito la necessità di cercare risposte razionali: non consolatorie, ma vere. E per fare questo hanno dovuto guardare in faccia la tristezza e la disperazione. Scrive l’autore: «“Thauma” è infatti, innanzitutto, l'angosciato stupore, lo stordimento e il terrore dell'uomo dinanzi al divenire della vita, cioè dinanzi al dolore e alla morte». Ecco il doppio volto della meraviglia. Già, perché se lo stupore è lo stato d’animo che si prova di fronte all’essere, il terrore è quello che si avverte di fronte al nulla; lo stupore è per ciò che esiste, l’orrore nasce dalla consapevolezza che le cose si dissolvono e scompaiono. Chissà se abbiamo cominciato a pensare perché sollecitati dalla vita o perché scombussolati di fronte alla morte. Forse è proprio questa perenne oscillazione tra la luce dell’esistenza e il vuoto del nulla ad aver scosso l’uomo e destato il pensiero. Non conoscendo le cause dei fenomeni gli uomini non potevano stare a lungo nell’inquietudine ed hanno cominciato a cercare risposte credibili che riducessero le loro preoccupazioni. Insomma, secondo Severino, l’uomo era spaventato dal divenire «inteso come l'uscire dal niente e il ritornarvi». Stupore per la vita e paura della morte, ammirazione per l’armonia e sgomento per il suo disfacimento. C’è molta verità anche in questa interpretazione. Tuttavia, se è vero che dalla meraviglia nasce la filosofia, ossia il pensiero razionale, è però vero anche l’opposto: dalla filosofia si origina la meraviglia. In ogni epoca il pensiero razionale ha gettato una nuova luce sulla realtà e ha innescato riflessioni o teorie, e pertanto ha continuamente generato altra meraviglia. Gli esempi sono infiniti: tra i tanti, lasciano a bocca aperta il nuovo modo di concepire la conoscenza, la morale o l’estetica di Kant o l’idea che il finito sia una variazione dell’infinito di Hegel. C’è dunque un rapporto biunivoco tra meraviglia e filosofia: il primo stato d’animo – positivo o negativo – suscita il pensiero, ma poi la filosofia determina un ulteriore miracolo: origina insolite visioni del mondo e invita a considerare i problemi in modo nuovo.
Un caro saluto,
Alberto
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