Biante, uno dei sette savi del mondo greco, ha affermato che «i più sono
malvagi». È una sentenza sconsolante, ma esprime una verità: gli uomini sono in
grado di operare il male con un certa soddisfazione, appagati
dall’esito sfavorevole delle azioni altrui; sono in grado di danneggiare il
prossimo per invidia, rivalità o per semplice malevolenza, e – per scegliere un
esempio letterario, come il “Riccardo III”
di Shakespeare –, sono persino compiaciuti delle conseguenze fatali delle loro
azioni. Chiunque abbia subito atti di prepotenza, sia stato oggetto di soprusi,
svalutazione, vittima di aggressività diretta o indiretta, è disposto a
sottoscrivere questa affermazione. Per carità, gli uomini non sono perfetti e non
cerchiamo pertanto di idealizzarli, perché ad una minima delusione delle
aspettative si possono generare giudizi dicotomici: gli uomini passano dall’essere
considerati tutti buoni all’essere ritenuti tutti cattivi. Cerchiamo pertanto di
evitare i due eccessi: di bontà e di malvagità. Come diceva un conciliante
filosofo napoletano della seconda metà dell’Ottocento «Gli interamente buoni
sono rari come gli interamente malvagi, i più stando di mezzo tra gli uni e gli
altri, né tutto buoni né tutto malvagi». Già, ma dentro questo insieme così
grande di persone non del tutto buone né del tutto malvagie, i più sarebbero comunque
malvagi. Perché? Di solito giungiamo a proiettare tale caratteristica sulla
specie intera, quando siamo stati delusi da una o più persone; la diffidenza si
estende allora al prossimo e ci lasciamo andare a giudizi irrazionali e a risposte
perlopiù inadeguate alla momentanea disperazione. Biante avrà emesso tale sentenza
con mente lucida o in preda a frustrazione? Pare che lo abbia fatto a ragion
veduta e non sull’onda di un’emozione negativa o di eventi sfavorevoli. Nel
corso della storia molti filosofi si sono pronunciati sulla bontà o sulla malvagità
della natura umana, ma non è necessario impegnarsi in una riflessione così radicale
sull’essenza dell’uomo. La maggior parte dei nostri incontri e delle nostre
relazioni non avviene con uomini di altissima statura morale, ma nemmeno di
infima dignità. Incontriamo di solito uomini medi, che producono danni medi,
bugie medie, dichiarazioni medie. Ma i giusti pare che siano pochi. D’altra
parte lo dice anche il “Qoèlet”
nella Bibbia che si può trovare un giusto forse «fra mille», ma poi anche
la Bibbia mitiga il giudizio, tenendo conto di quanto sia difficile anche per l’uomo
giusto agire sempre in modo virtuoso: «Non c’è infatti sulla terra un uomo
così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai». Il poeta Giovenale non
aveva probabilmente particolare fiducia nell’uomo, perché nelle “Satire” afferma che: «I buoni sono
rari: sono appena tanti quante sono le porte di Tebe o le bocche del fertile
Nilo». Davvero non molti, perché le porte di Tebe erano sette e altrettante
erano le «bocche» del Nilo, i paesi attraversati e fecondati dal fiume (Berundi,
Rwanda, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Sudan, Egitto). Così la pensavano,
senza produrre quantificazioni così riduttive, anche Platone, Aristotele,
Montaigne, Spinoza e tanti altri. La riflessione di Platone è particolarmente
importante, perché il grande filosofo, dopo la condanna a morte del proprio
maestro e amico Socrate, dedica gran parte delle proprie energie per immaginare
uno Stato che non mandi a morte uomini retti e giusti. Nella “Repubblica” le sue preoccupazioni
diventano tema di un importante dibattito: «ci troviamo ora a chiederci
perché mai la maggioranza sia cattiva». La conclusione è che si può
diventare malvagi se si assecondano il piacere immediato, l’inclinazione
all’imperfezione, la brama di possedimenti o la sete di potere, se si agisce in
modo impulsivo e non filtrato dalla riflessione. Poiché sono poche le persone
che riescono ad amministrare la propria vita con saggezza e a vivere secondo
virtù, egli ritiene che debbano essere i filosofi a guidare lo Stato, perché
essi hanno già dato prova di non cercare vantaggi personali, ma la verità. Anche
Aristotele ritiene che i buoni sono rari e afferma che «uomini di tal sorta
non sono frequenti». Egli non si esprime sull’essenza specifica dell’uomo, ma
afferma che è la nostra condotta a determinare chi siamo: come ogni azione
buona può aiutarci a migliorare, così «ogni azione malvagia rende l’uomo più
ingiusto». Così, invece di pronunciarsi su un’improbabile essenza della natura
umana o individuale, Aristotele lascia aperta la porta alla responsabilità:
sono dunque le scelte quotidiane a connotare con precisione gli esseri umani.
Anche oggi, se si osservano le reazioni di alcuni ospiti nelle trasmissioni
televisive o i messaggi di commento sui social, ci si rende conto che, come
affermava un antico proverbio, «la malvagità non ha bisogno che di un
pretesto». Di fronte a questo pessimismo più o meno giustificato ci sono
soluzioni? Secondo Aristotele l’educazione può avere una certa efficacia. Lo
scrittore greco Diogene Laerzio racconta infatti che Aristotele: «diceva che
dell’educazione le radici sono amare, il frutto è dolce». Egli racconta un
episodio accaduto al filosofo che è stato variamente interpretato. «A chi
gli rimproverò di aver soccorso un uomo malvagio […] “Non l’uomo soccorsi – replicò – ma l’umanità”». Conoscendo
quanto l’uomo è abile ad autoassolversi, Aristotele ritiene che solo il
comportamento virtuoso e l’esempio possono, forse, alla lunga persuadere anche
i più.
Un caro saluto,
Alberto
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