C’è qualcosa di ingegnoso e allo stesso tempo di nobile nella sentenza di Socrate: «nessun uomo pecca volontariamente». Geniale, per la riflessione razionale con cui il filosofo argomenta la tesi; e nobile, perché vorremmo fidarci di questa intuizione, anche se spesso dubitiamo di tale verità. Sappiamo fin troppo bene dalla storia – e anche Socrate lo sapeva – che esistono uomini intrinsecamente malvagi. In “Tito Andronico”, la più cruenta tragedia di Shakespeare, Lucio chiede ad Aronne: «Non sei pentito di questi infami delitti?» E Aronne risponde: «Mi pento, sì, di non averne fatti altri mille. Ancor oggi maledico i giorni […] nei quali non ho commesso qualche famigerata malvagità». Se lasciamo da parte alcune degenerazioni della natura: persone accecate dal male che con sadica esattezza vogliono la distruzione del genere umano e ci concentriamo sulla maggior parte della specie, senza naturalmente idealizzarla, possiamo affermare con Socrate che “di solito” ogni uomo agisce per ottenere il bene. Quindi, secondo il filosofo ateniese, nessuno compie il male volontariamente, talvolta – purtroppo – scambia il male per il bene e pertanto non si comporta in modo virtuoso solo perché ignora ciò che era davvero giusto fare. Secondo Socrate, l’uomo non agisce con la volontà di fare il male: scarso sapere e inadeguata educazione di sé non consentirebbero di rendersi conto del momentaneo abbaglio: aver confuso il piacere temporaneo con il bene durevole. Il tema è ripreso nell’ “Ippia minore”: perché l’uomo dovrebbe compiere il male volontariamente? Socrate dice che per volere il male, l’uomo deve conoscerlo e quindi saperlo distinguere dal bene. Se è in grado di distinguerlo dal bene è in grado di conoscere il bene. Ma un uomo che conosce il bene, perché dovrebbe scegliere il male? Chi agisce, infatti, vuole sempre conseguire il proprio bene. Socrate pone sullo stesso piano due grandi temi: la verità e il bene. Ed ecco la sua genialità: come la verità si disvela gradualmente e orienta le menti razionali, così il bene si manifesta progressivamente alla ragione. In greco “verità” si dice “aletheia”, e si compone di un “a” (privativo) e “Lete” che significa “oblio”, in quanto Lete era la fonte dell’oblio. Letteralmente la parola verità significa “togliere il nascondimento”, ossia “svelare”, che anche qui vuol dire “togliere il velo”. Avviene qualcosa di simile quando si apre un sipario e piano piano si intravvede la scena che sta dietro o, in modo più prosaico, quando si tirano via le lenzuola dal letto e si scoprono calzini, piedi, pigiama e il resto del corpo. La verità e il bene sono portati alla luce dalla ragione che dirada la nebbia che impedisce di distinguere adeguatamente la realtà vera. Se conosciamo che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180°, non accetteremo mai di affermare che è 75° o 125° né ammetteremo un numero diverso da 180°. Sosteniamo un numero differente solo se ignoriamo la verità. Appresa la verità, ogni tentennamento è escluso per la potenza della verità stessa. Secondo Socrate funziona così anche con il bene: se conosciamo il bene, siamo spinti verso di esso, perché la nostra natura razionale ci esorta a realizzarlo. Siamo dunque attratti dal bene e siamo in grado di distinguerlo dai suoi surrogati. Conoscere adeguatamente il bene è un po’ come conoscere le proprietà del triangolo: quando le padroneggiamo cessano ambiguità e dubbi; così, sul piano etico, avendo chiaro il bene ci sforziamo di conseguirlo. Secondo Socrate il bene ha la stessa potenza della verità, è della stessa natura. Una volta conosciuto non può essere confuso con altro. Ecco un esempio: fumare fa male. Lo sappiamo, ma molti continuano a fumare e ad ignorare questa verità. Socrate è convinto che se uno conoscesse veramente i danni e avesse compreso a fondo il deterioramento dei polmoni e della salute provocati dal fumo, smetterebbe di fumare. Se non abbandona tale pratica non è perché è cattivo, ma perché non ha veramente compreso il danno. Socrate è stato accusato di intellettualismo etico: gli è stato rimproverato che non è sufficiente sapere cos’è il bene per compierlo. La nobiltà della sua intenzione è tutta qui: il comportamento dell’uomo discende dalla conoscenza, e il bene ha la stessa chiarezza razionale della verità. Purtroppo non tutti la pensano come lui. Consideriamo due importanti critiche alla sua visione. Nel “Gorgia” di Platone, Callicle deride Socrate perché ritiene che il bene non abbia la stessa natura della verità e non sia affatto oggettivo; egli ritiene che la giustizia sia semplicemente una convenzione umana. Mentre le leggi della matematica sono universali, gli uomini non seguono un’unica legge di giustizia. Poiché spesso domina il più forte, è pertanto la forza ad imporsi e a regolare i rapporti, non la giustizia. Un’altra critica arriva da Platone. Egli ritiene che l’uomo non soddisfi solo la ragione: nella sua visione dell’anima l’uomo non è caratterizzato solo dalla ragione, ma da impulsi e desideri che spesso ostacolano il percorso più sensato. Se per Socrate la presunta oggettività del bene è sufficiente a indirizzare il comportamento, Platone ricorda che l’uomo può anche assecondare gli impulsi irrazionali. Pertanto, se pecca, è perché appaga l’istinto. Il male allora non è più “involontario” e le scelte non sono più “innocenti”.
Un caro saluto,
Alberto
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